Gli “Alberi erranti e naufraghi” di Alberto Capitta
Non solo una storia avvincente ma anche un’armoniosa fusione di prosa e lirismo, tradizione e modernità, realtà e sogno, uomini e natura: questo il pregio di “Alberi erranti e naufraghi”, sesto romanzo di Alberto Capitta.
Sono approdata a “Alberi erranti e naufraghi” grazie al consiglio di un amico lettore del cui giudizio mi fido molto. Sesto e per ora ultimo romanzo di Alberto Capitta, è stato per me il primo approccio con questo interessante scrittore.
Con piacere vi ho trovato un bell’esempio di “sardità intelligente” dove vocazione identitaria e apertura al resto del mondo convivono armoniosamente così come tradizione e modernità, realtà e sogno. C’è, infatti, un che di vagamente magico e surreale in questo romanzo dove anche le cose inanimate …si animano: «Alle spalle del ragazzo la sedia si allontana con gli stessi pensieri: eccomi, si dice, eccomi laggiù, sono il predellino del pianista, sono quella di noce e perbene seduta di fianco alla scrivania, oppure sono là, sono quell’altra fresca di falegnameria truccata con deliziosi fii di mordente; e poi sono lì, sono quella più oltre, oltre quei cerchi di filo spinato, sono la sedia del condannati a morte, sono l’ultimo sostegno, sono la sponda estrema, guardatemi, sono quella, e non ho parole per raccontarlo».
Il suggestivo titolo – che rivela per intero il suo significato solo nella parte finale del romanzo – ci suggerisce che a mescolarsi in queste pagine sono anche prosa e poesia. Capitta, come Grazia Deledda e Marcello Fois, ha una spiccata vocazione lirica su cui, tuttavia, riesce a innestare – senza stridore – note decisamente prosaiche.
Dove c’è lirica, c’è anche Natura e l’autore mostra nei suoi confronti un amore così sano e “motivato” da risultare contagioso anche per chi di piante e animali non s’è mai curato granché. Un amore espresso, in particolare, attraverso i pensieri, le parole e le azioni di Piero e Giuliano Arca, uomini senza tempo incastrati in una realtà che invece del tempo (insieme al denaro) ha fatto il suo dio. Uomini che si lasciano guidare da un sentire non comune, stridente con quello dominante, che inevitabilmente ne fa degli incompresi e, quindi, degli emarginati.
Il loro profondo ma complesso rapporto è il motore della storia, oltre che il fulcro di una rete di relazioni che si delinea pagina dopo pagina. E a rivelarsi gradualmente è anche la natura profonda di questi legami. Sono, infatti, rapporti dall’andamento tutt’altro che prevedibile, differenti da come appaiono a prima vista (perché, magari, dietro modi bruschi si nasconde una sensibilità pudica o perché «c’è polvere d’amore sotto il lutto»), costruiti con fatica e tenuti in piedi da equilibri fragili, pronti a spezzarsi alla prima mossa che si discosti dal percorso collaudato. Qui i sentimenti – l’amore, innanzitutto – e gli stati d’animo – la serenità, in particolare – possono nascere e morire in un istante, quasi a ricordarci che siamo creature fragili, destinate a esistenze precarie. Che siamo naufraghi, appunto, in balia di mari agitati da correnti talvolta impercettibili e per questo particolarmente insidiose.
Volendo trovare un difetto a questo romanzo, c’è forse un eccessivo accelerare della trama in dirittura d’arrivo. Ma l’eventuale pecca sarebbe, comunque, compensata dal finale, il più naturale per questa storia, l’unico “giusto”. L’epilogo sembra, infatti, volerci ricordare che nella vita c’è un prezzo da pagare per tutto, ciò che si sceglie e ciò che arriva da sé. Ma evitare di affondare in questa vita che non fa sconti è possibile, magari se si comprende che «Non c’è serenità che non si possa ritrovare, dunque, basta frugarsi un po’ le tasche» o se si riesce ad assaporare il piacere di stare «in quell’esiguo confine» in cui «Niente è risolto eppure tutto sembra rinascere».