Gustavo Zagrebelsky, sacerdote della libertà
La libertà è un male o un bene? Gustavo Zagrebelsky ha scelto di interrogare sé e il pubblico del XIX Festival della letteratura di Mantova passando per Dostoevskij e il suo Grande Inquisitore.
di Marcella Onnis
Festivaletteratura 2015 – Mantova – Domenica 13 settembre 2015
Gustavo Zagrebelsky, come Stefano Rodotà, è considerato da molti un Presidente della Repubblica honoris causa. Entrambi probabilmente non lo diventeranno mai perché questa carica si assegna più per opportunità politica che per autorevolezza, ma poco importa: continueranno comunque a raccogliere ampio consenso tra la gente. Prova ne sia il lungo applauso che accoglie Zagrebelsky al suo arrivo nel cortile di Palazzo San Sebastiano.
Per parlare si alza in piedi (non si siederà fino alla fine dell’incontro, durato oltre un’ora) e il suo tono, a dire il vero, risulta un po’ soporifero, ma fortunatamente compensato da una fine ironia, accolta più volte da risate aperte e applausi. E proprio con l’ironia esordisce, commentando il numeroso pubblico davanti a sé con un «è una consolazione che Dostoevskij attiri ancora». Sul celebre scrittore russo – come annunciato dal programma del Festival – è incentrata, infatti, la sua lectio magistralis, che verterà su potere e libertà.
“CON DOSTOEVSKIJ CI SI CONFRONTA” – «Il conflitto/dialogo con Dostoevskij può avere effetti destabilizzanti. È stato detto che con/a proposito di Dostoevskij non si parla: ci si confronta» premette, per poi aggiungere che questo autore «non dice mai la sua: fa parlare i suoi personaggi. La sua non è mai una voce diretta: è filtrata dai personaggi, che esprimono diversi punti di vista, opinioni del mondo “squadernate” su cui noi dovremmo prendere posizione. Ma non sempre è possibile. L’obiettivo di Dostoevskij, comunque, non era comunicarci il suo pensiero: era provocare il nostro. I suoi romanzi sono grandi interrogazioni e non è detto che a queste si sappia dare una risposta netta. Molto spesso ad esse sarebbe bene rispondere con un “Mah, ci devo pensare ancora un poco”».
Dell’opera di Dostoevskij, Zagrebelsky intende analizzare, in particolare, il quinto capitolo, intitolato “Il Grande Inquisitore”, del libro V della seconda parte de “I Fratelli Karamazov”. Prima di cominciare, ricorda che quest’opera sarebbe dovuta essere una trilogia, ma è rimasta incompiuta, per cui quello che conosciamo è solo il primo volume del progetto. L’opera completa avrebbe dovuto raccontare la maturazione spirituale del fratello minore dei Karamazov, Aliosha (Aleksej/Alëša). All’interno del celebre quinto capitolo (che alcuni editori pubblicano separatamente), sceglie di analizzare la parte sul segreto dell’esistenza, «così, per non volare alto» commenta ironico. Il quesito di partenza è «siamo noi esseri umani portati alla libertà o al servaggio?». Un tema affrontato – seppur più brevemente – anche il giorno prima da Kamel Daoud, anche in questo caso chiamando in causa un celebre predecessore (Albert Camus).
Qual è, però, il nesso tra il segreto dell’esistenza e il segreto del potere, oggetto di questo incontro? Semplice: per parlare del secondo occorre parlare del «rapporto tra potere e libertà», che sono «due poli della condizione umana». E sul punto Zagrebelsky fa presente che «il mondo ideale di Dostoevskij è quasi sempre dicotomico (il Bene contro il Male, Dio contro il Demonio: aut… aut…) Capite bene che questo modo di presentare il mondo è stimolante, perché la dicotomia non conosce mediazioni, compromessi».
Poi evidenzia come questo capitolo del Grande Inquisitore sia definito dialogo, ma «è un conflitto, uno scontro. Solo che uno dei due interlocutori è totalmente silente. È una grande arringa del Grande Inquisitore in difesa del suo ruolo e una grande accusa al Cristo, che si oppone agli inquisitori. Pur essendo una delle due parti totalmente silente, è, tuttavia, un dialogo (che deriva dal greco dià logos, “da una parola all’altra”)».
Zagrebelsky ci invita, quindi, a pensare ai tanti significati che può assumere il silenzio, per poi farci notare che «ci può essere un silenzio dialogico. Anzi, lo stare silenziosi in un dialogo può essere una tecnica molto efficace: se uno argomenta contro di te, stando in silenzio, lo provochi ad andare oltre nella sua argomentazione e a mettersi totalmente a nudo».
LA SOLUZIONE AL GRANDE MALE – «Questo capitolo, a prima vista, può sembrare un fuor d’opera, ma ha un nesso con la trama. Prima di questo capitolo, Ivàn [che dei Karamazov è il fratello mediano, ndr] incontra Aliosha. Ivàn rappresenta lo spirito agnostico e nichilista derivante dalle idee occidentali e dal socialismo, è un razionalista; Aliosha è, invece, destinato a una vita conventuale. I due quindi si incontrano per fare un po’ i conti. Ivàn provoca il fratello mettendo alla prova la sua fede religiosa sul punto delle grandi ingiustizie del mondo». Ingiustizie che colpiscono gli innocenti, «ma chi sono gli innocenti nella vita? Siamo tutti troppo vissuti per essere totalmente innocenti. Lo sono solo gli animali e i bambini, che non conoscono la differenza tra il bene e il male». Per questo, gli esempi che Ivàn propone al fratello (e che Dostoevskij riprese dalla cronaca di quel periodo) vedono queste creature protagoniste. Che cosa risponde Aliosha? «Balbetta perché questo è uno dei grandi dilemmi dostoevskijani dove non c’è una risposta».
Ed ecco il nesso con l’apparente fuor d’opera: «L’Inquisitore si presenta come colui che ha la soluzione al grande Male: per togliere questo dagli uomini bisogna togliere loro la libertà, perché questa ne è la radice. E, potremmo dire, l’oppressione è la radice non del Bene, ma del benessere».
Dostoevskij immagina che, a Siviglia, il giorno dopo un auto da fé, davanti alla folla ancora radunata nella piazza si presenti il Cristo in vesti dimesse. Questi viene immediatamente riconosciuto dalla folla e compie due miracoli citati nei Vangeli (toglie il velo dagli occhi di un cieco e risuscita una bambina). Ma «in quel momento, passa il Grande Inquisitore, che è ormai un vecchio. La folla lo fa passare come ha fatto col Cristo e questo potrebbe aprire a considerazioni sulla psicologia della folla, capace di entusiasmarsi per cose opposte» L’Inquisitore ordina alle guardie di prendere il Cristo e questi viene imprigionato. La notte l’Inquisitore va a trovarlo e qui comincia il famoso dialogo incentrato, appunto, sulle grandi ingiustizie.
«L’inquisitore accusa Cristo di aver portato sulla terra il seme della discordia, della guerra, della violenza… tutte cose che si compendiano nella libertà. Gli esseri umani hanno ricevuto da Cristo il dono della libertà, ma non ne sanno fare uso e la mettono al servizio dei propri interessi. E se non ci fossero gli inquisitori, gli uomini si distruggerebbero fra loro fino all’antropofagia. Se volete, questa narrazione possiamo laicizzarla. Che cos’è la libertà del Cristo? È la distinzione, la tensione tra ciò che si svolge nei nostri rapporti orizzontali – tra di noi – e quelli verticali, ossia il guardare la nostra condizione umana da un punto di vista esterno, superiore, mettendola in crisi e prendendone le distanze in nome di qualcosa che vorremmo esistesse al posto di ciò che è. La libertà ha, dunque, una forza trasformatrice».
Chiarita la valenza laica del discorso, Zagrebelsky ritorna al Grande Inquisitore, che così dice al Cristo: “La libertà è un dono avvelenato e io sono venuto al mondo per togliere il veleno che tu hai messo nell’animo umano”. Un punto chiave che fa dire al costituzionalista: «Se questo nostro incontro può avere un senso, è questo: andate a prendervi questo passaggio del romanzo». Anche il seguito del discorso dell’Inquisitore, da lui citato, è, infatti, significativo: “Noi inquisitori avremmo potuto accettare il tuo dono perché eravamo nella schiera dei forti, ma ho avuto pietà di coloro che mi stanno attorno. Tu non hai compiuto un atto pietoso verso di loro, anzi, hai fatto un dono avvelenato. Il vero amico dell’uomo sono io”. Dunque, fa notare Zagrebelsky, queste righe ci ricordano che «Ci sono uomini che scelgono di occuparsi del bene degli altri ma, così facendo, espropriano il diritto degli altri di individuare ciò che è bene per loro». E ci invita a pensare se oggi c’è chi si arroga questo diritto di dire cos’è il bene per noi. L’applauso con cui gli rispondiamo vale più di mille squillanti sì.
TENTAZIONI E SEDUZIONI – Continuando a parlare di inquisitori, ma rendendo evidente la validità allegorica di questa figura, il costituzionalista ci fa notare che essi «sono diversi da come immaginiamo gli oppressori, perché usano strumenti di tipo seduttivo, forse più efficaci della forza perché la seduzione è un grandissimo strumento di potere» (e qui ripenso a quanto ho ascoltato poche ore prima dalla voce di Marcello Fois riguardo alla fascinazione del male). «L’inquisitore è amico degli uomini perché, come tutti i seduttori di questo mondo, vuol essere amato. Non come il tiranno che è odiato dai sudditi».
Concetti, questi, che mantengono inalterata la loro validità e che hanno radici ancora più affondate nel tempo. Già i Vangeli sinottici, parlandoci delle tentazioni di Cristo, ci indirizzano in questa direzione e non a caso Dostoevskij le cita in questo capitolo. Mentre Zagrebelsky si accinge a spiegarci il perché, qualcuno tra il pubblico comincia a manifestare un po’ di insofferenza per questa che più che una lectio magistralis sembra un’omelia. Tuttavia, la chiave di lettura laica c’è e lui stesso l’ha già indicata. Il Vangelo, del resto, è una narrazione, a prescindere dal valore che gli si attribuisce, e come ogni narrazione può servire a far arrivare al lettore/uditore, in una forma bella e accessibile, un messaggio importante.
La prima tentazione con cui il Diavolo insinua Gesù riguarda il cibo: gli propone di trasformare i sassi in pane. Anche senza la spiegazione di Zagrebelsky sarebbe stato facile capire che per sottomettere le persone basta soddisfarne i bisogni primari (se non con il pane, magari con una social card o un bonus di 80 euro al mese), compito ancor più facile quando esse vivono in condizioni di grande difficoltà.
La seconda tentazione è l’invito a compiere un grande miracolo (precisamente a gettarsi dal pinnacolo del tempio e a lasciarsi salvare dagli angeli). E non siamo forse noi italiani sempre in attesa di miracoli, sempre pronti a credere a chi ce li promette? Zagrebelsky non è così bacchettone con noi e si limita a mostrarci un “miracolo” moderno che può rappresentare per noi un’insidia: la tecnologia, «un qualcosa che molti non capiscono. Non a caso, tanti dicono che la democrazia – il potere di tutti – è minacciata dalla tecnocrazia, ossia il potere di quelli che sanno».
Il nesso con il discorso di cui sopra è ancor più chiaro nella tentazione del potere (specificamente la proposta di accettare di adorare il Diavolo per avere tutti i regni del mondo). Questo passaggio, dice Zagrebelsky, ci ricorda che «la forza del potere non è la violenza: il potere penetra nelle nostre coscienze grazie alla sua forza seduttiva». E aggiunge: «Siamo molto lontani da quell’epoca? Notate che il potere si ammanta sempre di forme pubbliche… come questa» dice, ironicamente autoaccusandosi. Poi prosegue: «Quando c’è un potente, c’è l’istinto a salire sul suo carro». E direi che in Italia siamo bravissimi a salire persino su carri che corrono a migliaia di chilometri di distanza da noi.
Ne “I Fratelli Karamazov”, a questo punto, il Grande Inquisitore getta la maschera e ricorda a Cristo che, incassati i tre rifiuti, gli aveva promesso di tornare al momento opportuno. Quindi, gli dice, “Ora eccomi qua. Abbiamo usato quei tre strumenti [pane, miracolo e potere, ndr] per sottomettere gli esseri umani e così garantire loro la felicità”. Tuttavia, fa notare Zagrebelsky, questa «è la felicità delle società pianificate, dove è lecito solo ciò che consente l’Inquisitore, dove c’è il pane per tutti, dove ci sono le mirabilie e i miracoli per tutti, persino due tenniste…» E qui tutti ridacchiamo per la valenza politica con cui qualcuno ha ammantato la finale degli US Open, disputata il giorno prima dalle due italiane Flavia Pennetta e Roberta Vinci. Zagrebelsky, però, gioca di fino: «Gli inquisitori direbbero che questo miracolo è la riprova che esiste un potere buono, come se ieri fossero stati in campo per consentire questo». Applausi e risate nostri, poi lui chiarisce: «Non è che vogliamo attualizzare Dostoevskij ma, confrontandoci con lui, mettiamo in campo tutto ciò che portiamo dietro come esperienza».
LE PAROLE ULTIME E QUELLE PENULTIME – Poi ci ricorda che il capitolo in questione finisce «con una fine provvisoria, con l’Inquisitore che dice al Cristo: “Oggi sei stato osannato dalla folla, ma vedrai che domani la stessa folla porterà le fascine e sarai condannato al rogo”. A quel punto Cristo si alza e posa un lieve bacio sulle labbra del vecchio Inquisitore, che hanno un fremito. Che significa questo bacio? Qui possiamo sbizzarrirci. Banalmente, potremmo pensare che l’Inquisitore si dichiari costretto a metterlo a morte, pur capendo la sua funzione. La più sdolcinata delle ipotesi è che la misericordia del Cristo è tale da portarlo a compiere un gesto d’amore verso colui che l’ha messo a morte. Oppure, dopo che l’Inquisitore mette a nudo le sue buone ragioni, quel bacio potrebbe essere il riconoscimento e l’ammissione di sconfitta del Cristo. Molti si sono chiesti: “Chi dei due ha ragione? E Dostoevskij da che parte stava?” Presumibilmente, dalla parte del Cristo, come fanno pensare altri scritti e le sue lettere. Ma c’è un’interpretazione particolarmente stimolante di un grande teologo luterano, Dietrich Bonhoeffer (che fu impiccato per una congiura contro Hitler), per cui il Cristo è venuto a portarci le sue parole ultime. Parole che stanno così in alto che sono da noi inattingibili, il che non rende insensata la ricerca del loro significato, ma noi qui viviamo delle parole penultime, che ci consentono di vivere la nostra dimensione orizzontale. Che è importante perché, partendo da qui, possiamo elevare lo sguardo per vedere le parole ultime. Il bacio sarebbe quindi un segno di riconciliazione, di riconoscimento che entrambe le parole hanno un ruolo da svolgere e devono essere rispettose l’una dell’altra.
La leggenda, però, non finisce così perché, ricevuto il bacio, l’Inquisitore apre la porta e dice al Cristo: “Vai e non tornare mai più”. E il Cristo se ne va nei meandri oscuri della città». Quindi, «questa leggenda ci dice che ci sono gli inquisitori, ma il Cristo non è stato bruciato né è tornato da dove è venuto: rimane oscuramente tra noi. Oscuramente nel senso di non trionfalmente: rimane per pungolarci, affinché il nostro sguardo sappia elevarsi qualche volta verso la dimensione verticale».
L’Ite, missa est è mancato, il lungo applauso finale invece no.