I lettori raccontano: Moby Dick e l’omeopatia
Alla fine degli anni sessanta avevo dodici anni, in casa non avevamo ancora il televisore ed io amavo molto leggere. In casa non avevamo libri ed io li prendevo in prestito dalla biblioteca comunale, ma mi sarebbe piaciuto tanto possedere dei libri tutti miei. Abitavo in campagna e per raggiungere la scuola passavo dal viale Dante: il viale più lungo e più bello di Scarperia, pieno di villini stile Novecento. Una mattina vidi abbandonata alla porta di uno di quei villini una scatola con dei vecchi libri. Mi soffermai a controllare e vidi che conteneva: “Moby Dick” di Melville, “L’isola misteriosa” e “Viaggio al centro della terra” di J Verne, “Ciondolino” di Vamba. Quando al ritorno da scuola notai che la scatola era ancora lì, non ebbi dubbi: i libri erano destinati alla discarica e quindi potevo prenderli. Quei libri li ho conservati per anni come un piccolo tesoro. In particolare mi piacque Moby Dick ed è ancora vivo in me il ricordo delle emozionanti immagini che suscitò nella mia mente, poiché i miei occhi ancora non avevano visto il mare. All’epoca chiaramente per me fu entusiasmante l’avventura per gli oceani, con le sue scene di caccia, le tempeste, gli incontri con le altre navi, i personaggi caratteristici, tutti riconoscibili nel mondo reale, in particolare Ismaele nel quale subito mi identificai. Da allora sono passati tanti anni e la mia casa è piena di libri, ma i miei figli, come molti figli di questa nostra società del “benessere” amano più guardare la TV che leggere. Quando racconto loro la storia della mia “scatola magica”, mi guardano con occhi increduli, però è proprio leggendo insieme a loro questi classici della letteratura per ragazzi, che riesco a spengere il televisore. Anche ai miei figli piace in modo particolare Moby Dick e ogni volta che mi sono “imbarcata” con loro sul Pequod, Melville mi ha detto qualcosa di nuovo. Ho riletto Moby Dick dieci anni fa con Lisa la mia primogenita, e mi ha colpito in particolare la Cappella del Baleniere e le sue lapidi dedicate ai marinai dispersi in mare, monito del destino di morte dell’uomo che ha la sua unica via di uscita nella fede. Mi è rimasto impresso nella mente il sermone di Padre Mapple costruito sul passo biblico che racconta la storia di Giona e solleva l’eterno dilemma dell’umana coscienza: che fare se per obbedire a noi stessi dovessimo disobbedire a Dio? Ho finito di rileggere Moby Dick in questi giorni con mio figlio Gabriele e questa volta mi sono soffermata sul cosmico ed eterno conflitto fra bene e male che in ogni uomo si ripete. Il capitano Achab è perfettamente consapevole che “l’ossessione di uccidere Moby Dich” dettata sua sete di vendetta lo distruggerà insieme al suo equipaggio, ma non ascolta le ragioni del suo ufficiale Starbuck, la voce del bene, e neppure coglie l’occasione di guarigione “omeopatica” che la provvidenza gli ha offerto nella pazzia del piccolo Pip. Per me è stato sorprendente scoprire che Melville nel suo splendido romanzo, pubblicato nel 1851, ha saputo miscelare insieme all’avventura e alle profonde riflessioni religiose e filosofiche una particolare attenzione per quella che è stata la grande scoperta scientifica del suo tempo: l’omeopatia, nata ufficialmente nel 1810, che egli ha dimostrato di conoscere. Sto parlando del capitolo 129 “la cabina”, – traduzione di Moby Dick fatta da Pietro Meneghelli, edizione Newton – dove leggiamo: “C’è qualcosa in te, povero ragazzo, che io sento troppo come una cura per la mia malattia. Ogni simile cura il suo simile (nell’opera originale “like cures like”): ma per questa caccia, è la mia malattia la salute che più desidero….. Ma credo che il fatto del simile che cura il simile si applichi anche a lui, così torna a diventare sano di mente”. Ho esaminato diverse traduzioni del romanzo ed ho trovato, con enorme soddisfazione, che Cesare Pavese, ingiustamente accusato di una traduzione troppo aulica, ha compreso profondamente Melville e ha così correttamente interpretato il capitolo 129: “C’è in te, povero ragazzo, ciò che io sento anche troppo risanatore per il mio male. Il simile cura il simile e in questa caccia il mio male diventa la mia più desiderata salute….ma penso che l’omeopatia valga anche per lui, in questo modo ritorna sano. Credo proprio che Melville abbia letto le opere del Dr. Hahnemann ed in particolare lo “spirito della dottrina omeopatica della medicina” In tale saggio il padre dell’Omeopatia, nell’enunciare i fondamenti della sua nuova Medicina afferma tra l’altro che: se a livello fisico “tra due affezioni simili, la più forte distrugge la più debole, ciò accade anche nella mente umana che non può essere colpita da due passioni simili nello stesso momento”. Per spiegare meglio il concetto Hahnemann ci fa l’esempio di come il dolore di una ragazza disperata per la morte di un amico possa essere consolato nel vedere la tragedia ancora più grande di una famiglia dove dei poveri bambini perdono il padre, unica fonte di sostentamento. A mio avviso Melville aveva apprezzato così tanto l’omeopatia da affidarle l’unica possibilità di epilogo positivo del romanzo: il capitano Achab aveva capito che tenendo vicino a se Pip, entrambi sarebbero guariti, ma invece di scegliere la “salute” e obbedire a Dio, ha obbedito a se stesso e si è reso colpevole del tragico destino del Pequod e del suo equipaggio.
Luisa Gianassi
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