Il biglietto di visita, ieri e oggi
Per ricordare la storia del più minuscolo e originale mezzo di comunicazione
Forse in pochi, ancora oggi, il biglietto di visita suscita un certo interesse proprio per le sue caratteristiche e la sua storia ultra secolare. Piccolo com’è sembra una “cosina” da nulla, dalle innumerevoli possibilità di messaggio, la cui consuetudine sembra avere origini dalla Cina oltre duemila anni fa: usavano scrivere i loro nomi su lunghi ritomi rossi. Attualmente in questo Paese è tornato in auge: ce ne sono di tutti i colori, profumati come caramelle, con fotografie, autoritratti, caricature, in calligrafia d’artista o personalizzati con massime e motti. Ma ancor prima gli antichi Greci usavano tavolette di metallo su cui stampavano la cera gli studenti, per comunicare con i maestri (Pericle usava tali tavolette per mandare messaggi alla fidanzata); mentre i Romani usavano le “schedulae senatoriale”. Altre notizie più certe ma confuse si hanno dalla metà del ‘500 in poi. In questo periodo erano solo dei simboli di amicizia, dei foglietti che gli studenti “liber amicorum” davano ai professori. Tale uso si protrae sino al 1786.
In Europa sembra che questo tipo di biglietto sia apparso la prima volta in Francia nella prima metà del ‘600, sotto Luigi XIV (1638-1715), il Re Sole. Nelle stamperie della rue Saint-Jacques, a Parigi, si stampavano per la Corte francese anche grandi almanacchi, veri e propri strumenti di propaganda, frutto di un’abile “strategia di comunicazione”. In questo periodo l’unica testimonianza certa sulla provenienza del biglietto di visita è documentata dai versi della commedia goldoniana “Il cavalier Giocondo”, rappresentata nel 1755, che dicono: “A vivere ho imparato/Son divenuto un altro, dopo d’aver viaggiato/Partendo da Bologna/facendo a lei ritorno/In visite una volta spendeva tutto il giorno/Ora con i biglietti supplisco ad ogni impegno/Ah! I francesi, i francesi, hanno il gran bell’ingegno!” Naturalmente quei biglietti seicenteschi e settecenteschi avevano un aspetto ben diverso da quello attuale in quanto erano delle vere e proprie opere d’arte, che recavano le firme dei migliori pittori e disegnatori dell’epoca; oltre che del nome del noto personaggio, si abbellivano di deliziosi fregi e figurine, simboli e curiosi motti.
Nel corso degli anni il biglietto di visita è andato sempre più semplificandosi fino a perdere ogni traccia dell’antico splendore. Diremo che, oggi come oggi, questo è un bene e aggiungeremo anzi che la bellezza di un biglietto di visita sta soprattutto nella sua semplicità: un cartoncino bianco, mai colorato, né troppo grande né troppo piccolo, caratteri semplici e nitidi, mai troppo minuti per non accecare chi deve leggerli. Ma il biglietto di visita non gode più di prestigio sociale come un tempo, quando – il noto scrittore francese Marcel Proust (1871-1922) racconta – veniva deposto su un vassoio d’argento per lasciare al padrone di casa, che poteva essere il marchese Villeparisis, il ricordo di una serata mondana.
O “gesto” politico, quando più di cento deputati pacifisti lasciarono, nel 1915, i loro biglietti nella portineria di Giovanni Giolitti (1842-1928), uno dei più influenti statisti italiani, per ringraziarlo della sua posizione contro l’intervento di guerra. Sta di fatto che questa minuscola realtà cartografica è nata per sostituirci nella visita a qualcuno; più della lettera costituisce la rappresentazione della nostra personalità: signorilità, intelligenza, equilibrio morale e mentale di una persona si possono spesso valutare dal suo biglietto di visita.
Osservazioni e suggerimenti
Biglietto “di visita” o “da visita”? La discordanza tra il da e il di è tuttora presente in molti trattati di linguistica: è più corretto dire biglietto da visita o di visita?, come pure festa da ballo o di ballo? A parte i pareri e gli scrupoli dei singoli linguisti, va detto che la preposizione da è di regola usata a dovere nel complemento di fine o scopo, cioè quando indica una destinazione occasionale, particolare, una idoneità, un’attitudine singolare e non generale o specifica del soggetto. È quindi corretto dire sala da ballo o da pranzo perché il fatto che ci si balli o ci si pranzi è un uso particolare assegnato a una sala, da conferenze, da concerti; fazzoletto da naso in quanto destinato al naso, per distinguerlo da quelli che possono essere destinati al collo o alla testa.
Ma si può anche dire festa di ballo perché quella festa è tale in quanto è di ballo, biglietto di visita perché la sua qualità specifica è quella di rappresentare la persona che fa visita a qualcuno; come pure si dovrebbe dire biglietto di viaggio, biglietto d’ingresso, biglietto di condoglianze, e non “da viaggio”, “da ingresso”, “da condoglianze”. Suggerimenti che non confermano certo una rigida regola, se consideriamo alcuni esempi esemplari tratti dal dizionario del Battaglia: “Un mazzetto di bei biglietti da visita” (Leopardi); “I miei biglietti di visita” (Tommaseo); “Una trentina o quarantina de’ miei biglietti da visita” (Carducci); “Un biglietto di visita sul quale era scritto: Vi amo…” (Verga); “I biglietti da visita” (Borgese); “Innumerevoli biglietti da visita” (Cecchi).
Per quanto riguarda le abbreviazioni alcuni lamentano che in Italia non esiste una sigla che distingue un dottore in medicina da un altro laureato. Si potrebbe intendere che l’abbreviazione Dott. si riferisce al medico, mentre quella Dr a tutti gli altri. Quando si tratta di abbreviare la parola dottore, soprattutto sui biglietti di visita, si incorre in un errore costante: la formula Dr. con tanto di punto fermo serve, oltre al resto, come segno di chiusura ma solo nelle parole abbreviate per troncamento (avv., prof., ing., etc.). Sarà quindi corretta l’abbreviazione dott. dove quel punto sostituisce le lettere troncate; nel caso del dottorato, quindi, non si tratta di un’abbreviazione per sincope, cioè per taglio nel mezzo della parola e, più precisamente, per sincope della parola latina doctor. Il punto dopo la r finale è perciò inutile, non dovendo sostituire nessuna sillaba o lettera troncata (semmai si dovrebbe scrivere D.r come si scrive dev.mo, aff.mo. Pertanto, la sigla corretta è Dr senza il punto: Dr Mario Rossi, Dr Avv.Piero Bianchi, Prof. Dr Luigi Verdi.
Ernesto Bodini
(giornalista scientifico)
grazie per le spiegazioni sul punto dopo dr
e nel caso fosse femmina?
che si usa? dr all’inglese? dott.ssa?
grazie in anticipo
Gentile Michela, rispondo volentieri alle Sue domande.
L’abbreviazione del dottorato al femminile sarebbe ipotizzabile come segue: Dott.ssa se il soggetto è medico – Dr.ssa se il soggetto è laureato in qualunque Disciplina (ma non medico). Al maschile, rispettivamente: Dott. e Dr (senza il punto). Ciò per un evidente distinguo, anche se nessuno ha mai stabilito una regola precisa a riguardo. Per evitare confusione nell’abbreviare i due tipi di laureati, suggerisco gli esempi di cui sopra. Cordiali saluti. Ernesto Bodini (giornalista scientifico – biografo) Torino