Salvatore Verde “Il carcere manicomio”: libro-denuncia sui “crimini di pace” – 2^ parte

(segue)

Il carcere manicomio, naturalmente, affronta anche il discorso delle misure alternative alla detenzione e dei meccanismi premiali. Di norma, chi si occupa dell’argomento si sofferma sull’iniquità dei parametri in base ai quali vengono effettivamente applicate, parametri che sostanzialmente premiano chi  “mette in cella un altro al posto suo” e non piuttosto – come dovrebbe essere – chi ha concluso o sta compiendo un vero cammino di rieducazione . Salvatore Verde punta, invece,  il dito sul fatto che dall’applicazione di questi istituti siano di fatto tagliati fuori la maggior parte dei detenuti: «ormai le misure alternative alla detenzione funzionano soltanto per quella componente della popolazione reclusa che gode di un sistema di opportunità proprio, con un buon livello di integrazione sociale e lavorativa, con un concreto radicamento familiare e di gruppo”». Dunque ne sono esclusi gli immigrati ma anche coloro che provengono o sono rinchiusi in determinate zone d’Italia, in quanto «mentre nei territori del nord c’è più ricchezza di opportunità di reinserimento lavorativo, sostenuta anche da una maggiore incidenza del privato sociale che interviene nel carcere, al sud i percorsi di reinserimento organizzati dal welfare penitenziario hanno scarsissime possibilità di offrire opportunità occupazionali».

Sempre restando in tema di rieducazione del condannato, ossia di rispetto dell’art. 27 della nostra Costituzione,  l’autore fa notare come a fronte del vertiginoso aumento di “ospiti” delle nostre carceri ci sia stato un paradossale ridimensionamento degli stanziamenti per il sistema penitenziario. Non solo, la riduzione del budget è andata di pari passo ad una sua redistribuzione: «Alla crescita esponenziale dell’utenza nelle carceri italiane […] le risposte sono state un adeguamento della forza numerica e del potere decisionale dell’apparato, ed una drastica riduzione delle risorse per la vita quotidiana dei reclusi, per la gestione delle condizioni di disagio e sofferenza derivanti dal progressivo impoverimento e imbarbarimento del quotidiano penitenziario». Per cui, anche in carcere, il compito di tamponare i danni causati dal ridimensionamento del welfare state è ovviamente lasciato al cosiddetto privato sociale.

Il riposizionamento del budget per il sistema penitenziario, tuttavia, va comunque a vantaggio di qualcuno: le imprese che hanno vinto e vinceranno gli appalti per la costruzione delle nuove carceri previste dal programma di espansione dell’edilizia penitenziaria voluto dal nostro Governo, che a tal fine ha stanziato un miliardo e mezzo di euro. E il fatto che Verde parli di “business penitenziario” certo non è un’esagerazione, né lo è il fatto di considerare sospetta la circostanza che il Governo abbia «decretato lo stato d’emergenza per la situazione delle carceri italiane», in modo da poter  gestire con procedure non ordinarie l’aggiudicazione dei lavori: già le vicende del G8 a La Maddalena dovrebbero  essere più che sufficienti a dimostrare quante insidie nascondano queste procedure d’urgenza, ma se non bastasse, l’autore ci informa che «tra le imprese assegnatarie ne troviamo due coinvolte nello scandalo per la ricostruzione del dopo terremoto in Abruzzo». E, ad ennesima conferma di questi sospetti, a chi sono stati affidati i lavori di edilizia penitenziaria a Sassari? Ad Anemone (fonte Ristretti orizzonti).

(continua)

Marcella Onnis – redattrice

marcella.onnis@ilmiogiornale.org

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