IL “DOVERE” DI SOFFRIRE E MORIRE SENZA DISTINZIONI…
di Ernesto Bodini (giornalista e opinionista)
Non credo che nei secoli scorsi ammalarsi o morire a causa di determinate circostanze suscitasse particolari stupore e coinvolgimenti, pur considerando l’esiguità dei mezzi di comunicazione. In tempi più recenti, invece, anche per interessamento dei mass media, un personaggio anche relativamente noto (una semplice star dello spettacolo, dello sport, della cultura) quando si ammala gravemente è oggetto di attenzioni e commenti finché non guarisce… o non decede. È evidente che ciò fa notizia in subordinazione del fatto che deve essere “appagata” la curiosità morbosa dei suoi fan, ma tale enfasi non fa che creare un divario tra personaggi famosi e meno (o per nulla) noti caduti in disgrazia. Razionalmente suscita curiosità e interesse sapere quando si ammala o decede uno statista, un luminare, un benemerito; ma che si debba dare risalto (spesso in continuazione) a professionisti di attività ludico-professionali e commerciali trovo che sia eccessivo e di poco rispetto per altre persone che, magari, anche se meno note hanno reso all’umanità il massimo di sé stesse. Per quanto riguarda il far conoscere le sofferenze e le morti (spesso tragiche) di molte popolazioni migranti, è certamente un dovere di cronaca ma al tempo stesso dalla valenza non solo umanitaria ma anche (se non soprattutto) politica per le ragioni che tutti sappiamo. Trovo comunque indecoroso che una star italiana, recentemente ammalatasi, abbia voluto ostentare ai mass media il suo “braccialetto dell’ospedale” (che viene messo al polso solitamente ad ogni ricoverato con i suoi dati anagrafici, n.d.a.), come se tale esibizionismo rafforzasse in qualche modo il valore della sua persona nei confronti dei suoi beniamini… e magari facendosi commiserare. Per contro, bisogna ammettere che nel corso dei decenni si sono ammalate e sono decedute molte altre star ma che pochissima attenzione si è data loro, e questo sta a denotare una sorta di incongruenza da parte di chi è deputato ad informare; fatta ecezione per coloro che per scelta non hanno voluto rendere pubblica la loro esperienza, tanto che al loro decesso sono cadute nell’oblio.
Quando l’essere umano si ammala o muore, è un evento che rientra nella cosiddetta “fisiologia dell’umanità”, ma questa ovvia constatazione non è razionalmente recepita sia da parte della maggioranza di noi che dai mass media che, alla prima avvisaglia di un evento avverso, piombano sulla stessa come avvoltoi. Del resto, è noto che non fa notizia un cane che morde un uomo, ma un uomo che morde un cane, ed è la regola numero 1 che viene insegnata in tutte le scuole di giornalismo del mondo. Una regola, a mio avviso, non solo “professionale” ma anche “commerciale” perché suscitando curiosità e scalpore molto probabilmente la vendita delle copie delle testate è assicurata. Certo, ciò non varca i confini della deontologia professionale, ma per ogni informazione si può sempre attuare quel dosaggio sufficiente da renderla accettabile… e non criticabile. Con questa mia breve disamina di malcostume sociale, non intendo ergermi a saccente o a paladino dell’informazione più corretta e non attaccabile da critiche, ma semplicemente invitare divulgatori e lettori a considerare i propri simili alla pari, poiché le nostre origini e il nostro destino non hanno differenze e, a conferma di ciò, bene sarebbe rileggersi la famosa e intramontabile poesia “A livella” di Totò, con la quale egli affronta con ironia e leggerezza il tema della morte, ricordando come al di là delle professioni e posizioni che occupiamo in vita, in fondo davanti all’ultimo passo siamo tutti uguali e umani. E se di fronte alla malattia non tutti hanno lo stesso atteggiamento o la stessa reazione (accettazione-rifiuto), non è detto che ci si debba distinguere facilitando direttamente o indirettamente l’incursione dei mass media… e commuovendo i propri beniamini.