Il film di Caterina Carone “Valentina Postika” nomination per miglior documentario al David di Donatello 2010

 Ho visto “Valentina Postika in attesa di partire” di Caterina Carone. Un documentario struggente, per la delicatezza delle immagini che sfumano proprio come i ricordi, mentre si dipana la storia di Carlo e con essa la storia del nostro Paese: la guerra, la resistenza, il boom economico, i giorni nostri. Carlo vive con la fatica dei suoi novant’anni, e con Valentina, la sua badante russa. A volte dimentica dove ha lasciato il bastone, ma non cade nella trappola pericolosa dell’oblio per quanto riguarda le sue convinzioni ideologiche, i suoi principi. La gigantografia di Lenin nello studio, fa da cornice alla sua vita di uomo solo, ma non domo, che rincorre la sua antica forza, senza averla mai del tutto perduta, mentre Valentina si commuove, pensando ai figli lontani e alla casa che vuole costruire nella sua terra. “Che roba incredibile è la vita e io sono fortunato” esclama Carlo. E’ questa, a mio avviso, la frase chiave che permette a due solitudini, quelle di Carlo e Valentina, di fondersi per un attimo, sprigionando la forza di resistere, in attesa di partire, ognuno per la propria destinazione. A interpretare il film, che ha ottenuto la nomination quale miglior documentario di lungometraggio, al David di Donatello 2010, troviamo Carlo Paladini e Valentina Postika. Due persone che interpretano se stesse.

I premi di Caterina Carone

2010 lug, Euganea Movie Movement (festival):
Premio Migliore Documentario (Valentina Postika in Attesa di Partire)
2009 nov, Torino Film Festival (festival):
Premio Miglior Documentario Italiano (Valentina Postika in Attesa di Partire)
2008 mag, Festival del Documentario d’Abruzzo (festival):
Menzione Speciale Medio/Lungometraggi (Le Chiavi per il Paradiso)
2008 feb, Officinema (festival):
Menzione Speciale Visioni Doc (Le Chiavi per il Paradiso)
2008 ott, Premio Libero Bizzarri – DOC Film Festival (festival):
Premio “Kodak” Italia DOC (Le Chiavi per il Paradiso)
Nomination  di Caterina Carone: 2010 mag, David di Donatello:
Nomination Miglior Documentario di Lungometraggio (Valentina Postika in Attesa di Partire)

L’intervista
Caterina, quando hai deciso di diventare regista?

In realtà non l’ho deciso. Quando ho scelto di studiare e poi di fare documentari non avevo mai avuto in mente la regia. Volevo prima di tutto capire come si svolgevano le ricerche per un documentario, come si sceglievano i protagonisti e perché, e in generale tutto il lavoro che c’era dietro e che rendeva possibile, anche tecnicamente, la produzione di un documentario. Penso che la mia scelta sia coincisa con la necessità, di spettatrice, di ascoltare e vedere storie di persone reali, che interpretano loro stesse sullo schermo e che raccontano il vero. Io sono nata nel 1982 e sono cresciuta con la televisione, con i film americani, con tutto ciò stava piano piano trasformandosi da cinema a televisione, e che è diventato, col passare degli anni, sempre più costruito e finto. Mi sono resa conto che ciò che offrivano i mezzi di comunicazione (televisione, cinema) erano spesso storie artificiose, nelle quali non era possibile riconoscersi, come non è possibile tuttora, storie facili, comode, poco impegnative. Ma la vita non è così, poco impegnativa, non è puro intrattenimento, e quindi, la prima volta che ho visto un documentario ho capito che quello doveva essere il nuovo cinema, e che prima o poi anche questa separazione sarebbe stata meno netta. Non sapevo però, allora, che sarebbe stata una battaglia…
Qual è la molla che ti ha spinto a scegliere questa professione?
Sicuramente la sfida di voler raccontare la realtà, mediata certo attraverso i miei occhi, ma pur sempre lavorando con persone che non possono che interpretare loro stesse, che non sono costrette da me e da chi lavora con me a fingere di essere qualcun’altro. La sfida che c’è dietro un documentario di osservazione, che non si basa quindi su interviste, sta nel preparare tutti i giorni il terreno affinchè i protagonisti, che appunto non sono abituati ad un set, possano sentirsi a loro agio e si comportino, davanti ad una videocamera, in maniera naturale. In questo tipo di film, affinché riescano bene, il documentarista si deve calare nella realtà che vuole raccontare, deve imparare a mettere da parte i pregiudizi, e deve fare in modo che i protagonisti lo sentano come parte di loro stessi, a volte né più né meno che parte dell’arredamento di casa. È proprio questo rapporto umano e confidenziale, in cui a volte si può stare anche senza parlare, tra persona a persona, e non tra persona e regista, che mi ha spinto a scegliere questa professione.
Quali sono i lavori che hai realizzato fino ad oggi?
Sono quattro. Il primo si chiama Numero 5 (2004) ed è un documentario breve su un autobus che io prendevo a Bolzano quando tornavo a casa dopo le lezioni. L’ho girato in due mesi, raccogliendo sguardi e dialoghi della gente sull’autobus e ne viene fuori, secondo me, uno spaccato della vita cittadina, del “popolo dell’autobus” in cui si mischiano persone di diverse estrazioni sociali, di diversa nazionalità, grandi e piccoli, tutti insieme in un unico ambiente, vissuto come situazione di transito. Montato come se fosse stato ripreso nel corso di un’unica giornata (giorno-notte) al ritmo di un brano di Astor Piazzolla.
Il secondo è Polvere (2006) ed è la storia di un rigattiere, Beppe, costretto ad aprire un negozio per vendere gli oggetti che ha accumulato in tanti anni. Quindi, rigattiere per obbligo e non per scelta. La sua passione per la “roba vecchia” l’ha infatti portato ad accumulare talmente tante cose, libri, piatti, orologi, macchine fotografiche, soprammobili, palline ecc… che non sa più dove metterli ed è costretto a venderli, senza volerlo. Dal carattere scontroso si rivela essere, nel corso del film, tutt’altro che un commerciante e, pur di non vendere il suo tesoro, alza il prezzo e finisce per trattare male i clienti, sviluppando una certa avversione anche per me che, puntigliosamente e dietro la videocamera, provoco le sue risposte.
Il terzo è Le chiavi per il paradiso (2007) ed è stato per me un film molto impegnativo, sia dal punto di vista pratico che emotivo. L’ho girato nel mio paese, Sant’Omero, decidendo di partire da un mio problema personale, da un elemento della mia vita che non mi ha mai permesso di integrarmi totalmente con la comunità del luogo, il fatto di non essere battezzata. Ho sempre cercato sin da piccola di capire cosa c’era alla base di un convincimento, religioso e non, e il film è una ricerca, attraverso tre personaggi del mio paese, per me indimenticabili, sul senso della vita. Ognuno di loro risponde a modo suo, contraddicendo il pensiero dell’altro, mettendo in discussione questo o quel convincimento. Ciò che ne risulta è che ognuno dovrebbe essere libero di pensare ciò che vuole, perché tanto non c’è opinione a riguardo che possa essere verificata.
Il quarto è Valentina Postika in attesa di partire (2009) ed è un documentario che intreccia materiali d’archivio e vita quotidiana alla ricerca di una memoria familiare e collettiva. Ho seguito per un anno insieme a Enrica Gatto, che ha curato il suono e poi anche il montaggio, la vita di mio nonno Carlo e della sua badante moldava, Valentina, registrando i loro dialoghi, i litigi, le incomprensioni e la modificazione del loro rapporto nel corso dei mesi. E’ un film che segue un doppio piano temporale, il presente e il passato; il presente di un uomo che ha vissuto il Novecento e che sta perdendo la memoria, e di una donna che vive in Italia per raccogliere i soldi per la costruzione di una nuova casa in Moldavia. Lui, alle prese con le sue sconfitte politiche, ripercorre il passato attraverso i materiali d’archivio contenuti nella sua biblioteca. Valentina pensa al domani, a quando potrà tornare in Moldavia dai suoi tre figli. E’ un film che parla quindi del presente ma che, allo stesso tempo, segnala l’importanza di guardare al passato per sapere come agire in futuro.
Puoi raccontarci un pò di te: la tua età, da dove vieni, i tuoi studi, i tuoi interessi, i tuoi hobbies, l’amore….
Ho 28 anni e sono metà abruzzese e metà marchigiana. Ho vissuto l’infanzia e l’adolescenza in Abruzzo, che considero la mia regione d’origine. Poi, per l’università, mi sono spostata a Bologna dove ho frequentato la facoltà di Scienze della Comunicazione. Lì ho iniziato a vedere documentari, si studiava antropologia, sociologia e interazione sociale e da lì ho iniziato a capire quale direzione volevo prendere. Ho scelto poi di frequentare la Zelig, una scuola di documentario sociale a Bolzano, dove ho avuto modo di conoscere nel corso di tre anni diversi professionisti del mestiere che concepivano il documentario in maniera diversa e che quindi non ci davano, a noi studenti, una linea unica da seguire.  Ed è stata per me un’esperienza molto importante e formativa.
Mi piace molto leggere e scrivere, cercare storie tutti i giorni, osservare. Col tempo, e abitando in Italia, ho capito che non tutte le storie che volevo potevano essere raccontate! Il documentario è un mezzo potentissimo, secondo me fondamentale per una società aperta e attenta allo sviluppo culturale del paese, e purtroppo in Italia è proprio difficile portare avanti documentari, è una sfida quotidiana e sfibrante. Si, penso che il mio hobby quotidiano, del quale non posso fare a meno, sia cercare e raccontare storie, alcune delle quali possono essere raccontate solo a parole, altre sono costrette a rimanere nel cassetto e non c’è che da appellarsi alla fortuna, sperando di poterle portare un giorno sullo schermo. Per il resto, ho un amore certo, ma questa è un’altra storia!
Cosa ti affascina maggiormente del tuo lavoro?
Il contatto con la gente, mi piace molto ascoltare e osservare per cercare di capire chi ho di fronte. Mi piace anche molto fare riprese. Stare dietro una videocamera è una continua scoperta. Quando si fanno riprese non si deve stare solo attenti a che vengano bene dal punto di vista tecnico. Ogni inquadratura deve essere densa di significato, deve comunicare non solo ciò che per esempio dice un personaggio, ma anche ciò che non dice, e da questo punto di vista saper ritagliare il contesto in cui il personaggio è immerso è  fondamentale, ed è qualcosa che si impara solo sbagliando, solo cercando di migliorare ogni giorno il proprio sguardo.
Secondo te quali sono le caratteriche necessarie per essere un buon regista?
Il regista secondo me deve sapere ascoltare e “vedere”, non solo ciò che c’è e si vede ma anche ciò che c’è e non si vede. Un buon regista deve essere deciso, deve sapere cosa vuole, ma deve anche essere pronto a cambiare idea se qualcuno gli fa notare che è meglio in modo piuttosto che nell’altro e, secondo me, non deve mai atteggiarsi a regista. Quello che conta non è l’atteggiamento stereotipato della professione, quello che conta è se il regista ha qualcosa da raccontare oppure no.
Consiglieresti ad un giovane di seguire la tua strada?
In questo momento, se devo essere sincera, non so se glielo consiglierei. In questo momento, in Italia, non so cosa consiglierei a un giovane. Il nostro è un paese che non lascia la possibilità ai giovani di avere un futuro, di fare dei progetti, di seguire la propria passione, di lavorare per il proprio sviluppo professionale, e il problema sussiste in tutti i campi e per qualsiasi professione che non sia vendita di surgelati o recupero crediti. Per quanto riguarda poi l’audiovisivo siamo in una fase pericolosa, costellata di paletti di vario genere, da censure, dalla modificazione e poi dalla comunicazione, da parte dei pochi che hanno i mezzi per farlo, di una realtà distorta e comoda, che non ha niente a che fare con la realtà così com’è davvero. Basta guardare il tg1… Certo, a un giovane direi che, se proprio vuole fare questo mestiere, deve essere preparato ai numerosi muri e fili spinati che si troverà davanti ogni volta che proporrà un progetto e alla gavetta eterna che dovrà scontare per il solo fatto di essere nato in Italia, paese in cui vengono chiamati “giovani” i registi che hanno superato i quarant’anni.
Il cinema oggi: cosa è cambiato nell’ultimo decennio?
Il cinema italiano non mi sembra che sia cambiato neanche di una virgola, anzi, in fondo credo che ci continuino a propinarci la stessa minestra da anni, sempre e solo con i soliti venti attori che vediamo dappertutto, gli stessi registi, le stesse storie. Ogni tanto succede di vedere qualcosa di nuovo, di profondo e di meno superficiale, ma si tratta di casi isolati, di film che spesso finiscono nel dimenticatoio perché non c’è una politica culturale atta a sostenerli. Che dire? L’unica strada, difficile e non meno impegnativa, è quella di aprirsi alla possibilità di coproduzioni estere, la necessità di trovare in Italia un produttore illuminato che lavori a più ampio raggio, che conosca anche ciò che viene prodotto fuori dall’Italia, e che sappia cogliere ciò che c’è di nuovo e di genuino nelle generazioni di registi a venire.
I tuoi prossimi progetti?
Ho un progetto bloccato al momento, al quale tengo parecchio. Si tratta di un documentario che vuole raccontare la realtà attraverso i cittadini e non per mezzo dei canali di comunicazione. In questo film alcuni personaggi mostrano la loro vita in Italia e dicono la loro, contraddicendo e ampliando il quadro parziale che ci viene propinato tutti i giorni dalla televisione. E’ un progetto corale con più personaggi di età diverse, che vivono storie differenti l’una dall’altra, e che hanno però la stessa sensazione sgradevole che l’Italia sia diventata e che stia sempre più diventando una palude. Visto l’argomento, non è un progetto comodo e non è detto che io riesca a farlo. Poi sto scrivendo altre storie, racconti, e da qualche mese sto sviluppando un’idea per un film, questa volta con attori, cercando però di mantenere il mio sguardo documentaristico.
Il tuo sogno nel cassetto?
Non so se è realizzabile, perciò sta nel cassetto. Essendo giovane, spero ancora che l’Italia possa cambiare, in meglio.

Francesca Lippi

Nella foto: Caterina Carone

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