Il mio ricordo di Francesco Cossiga
Quando Francesco Cossiga fu eletto presidente della Repubblica avevo solo 5 anni e ne avevo 12 quando si dimise con qualche mese di anticipo rispetto alla scadenza naturale del mandato, per cui del periodo più attivo della sua vita politica ho ben pochi ricordi. Fondamentalmente sono tre.
Il primo, nonché il più banale, è questo: essendo nostro conterraneo, mio cugino si divertiva a chiamarlo “zio Francesco” … e magari, se fosse venuto a saperlo, la cosa l’avrebbe pure fatto sorridere.
Il secondo è che, poiché in quel periodo mi trovavo nella mia precoce fase di “comunismo acritico”, Cossiga per me era un illiberale, un neofascista, uno che – piuttosto che cedere al ricatto delle Brigate rosse e tradire la ragion di Stato – preferì lasciar ammazzare il suo amico Aldo Moro. Oggi, non la penso in modo molto diverso da allora, però sono convinta che quella scelta gli pesò molto e che il senso di colpa fu per lui più assillante che non per coloro che materialmente uccisero quell’innocente.
Il terzo ed ultimo ricordo è, naturalmente, legato al suo periodo da Picconatore, che gli valse la colorita imitazione di Manlio Dovi negli spettacoli del Bagaglino (ai tempi in cui ancora mi facevano ridere). Quelle sue affermazioni, però, non divertivano allo stesso modo i politici di allora, né gli altri esponenti della Democrazia cristiana né Occhetto ed il suo Pci. Anzi, furono gli stessi suoi colleghi ad affibbiargli l’etichetta di “arteriosclerotico”. Col senno di poi mi rendo conto che queste reazioni non furono dettate tanto dal fatto che l’allora Presidente avesse ormai perso il senso della misura (a quei tempi destava ancora scalpore che un governante facesse simili esternazioni), quanto dalla sindrome della coda di paglia: Cossiga forse dava davvero i numeri, però ci vide giusto nel sostenere che i partiti non erano pronti a recepire l’ondata di cambiamento in arrivo dall’Est Europa. E l’avvento della cosiddetta “Seconda Repubblica”, infatti, gli diede ragione. Che gran parte dei suoi illustri colleghi – soprattutto dopo l’esplodere del “caso Gladio” – lo volesse fuori dalla scena politica me lo ricordo benissimo, per cui quando, negli ultimi anni, in tanti smisero di considerare i suoi coloriti giudizi come i deliri di un arteriosclerotico per accoglierli come verità calate dal Cielo, non potevo far altro che scuotere la testa: chissà perché, una volta fuori dai ruoli di potere, Cossiga tornava ad essere un luminare …
Da questi ricordi passati posso costruirne uno nuovo e più articolato da portarmi nel futuro: è il ricordo di un uomo sicuramente contradditorio (in realtà, lo siamo in tanti, solo che – a meno di non fare frequenti dichiarazioni pubbliche – per noi la cosa non dà nell’occhio), ma anche anticonformista, lungimirante, capace di vedere i problemi tanto nelle fazioni “nemiche” quanto nella propria, molto arguto e per questo dotato di un’ironia pungente, che nulla ha a che vedere con l’umorismo dozzinale tanto di moda tra i politici di oggi. Un vero statista – con i suoi pro e, soprattutto, i suoi contro – che fece determinate scelte, anche molto discutibili, perché credeva in quello che faceva, perché – pensando con la sua testa – riteneva fosse quello il modo migliore di servire le istituzioni che era chiamato a rappresentare. Soprattutto, però, zio Francesco fu un sardo con la “S” maiuscola: sempre orgoglioso delle proprie radici e capace di interpretare in modo intelligente e moderno il bisogno-diritto di autonomia dell’Isola.
Certo, a meno che non venga fuori un memoriale postumo, morendo si è portato nella tomba la chiave di tanti misteri (anche se alcuni ormai sono dei segreti di Pulcinella), ma noi italiani siamo abituati a vivere nella menzogna per cui poco ci cambia. Del resto, siamo tutti consapevoli che gran parte dei politici – anche di sinistra – che continuiamo a votare non sono meno “sporchi” di lui. Anche per questo, scelgo comunque di pescare qualcosa dalla sua eredità spirituale. È un pensiero del 2003, più che mai attuale: «quando la stampa va d’accordo con i poteri e i poteri sono contenti della stampa, vuol dire che qualcosa non funziona sul piano della libertà».
Marcella Onnis