Il punto su disabilità e social con Marta Pellizzi
Un meningioma benigno le ha fortemente danneggiato la vista ma, in barba a difficoltà e pregiudizi, oggi Marta Pellizzi è un’esperta di comunicazione e social media marketing. In quest’intervista, ci dà qualche parere su mondi che conosce molto bene.
di Marcella Onnis
Marta Pellizzi, classe 1989, dopo un’incursione nel mondo della moda (con il suo progetto “AllForFashion”, incentrato sulla bellezza non convenzionale), è oggi una consulente di comunicazione e social media marketing. Fin qui niente di straordinario. A esser inusuale è il fatto che sia ipovedente (simpatica eredità di un meningioma benigno) e che svolga attività che, come lei stessa evidenza sul suo sito, «sono svolte convenzionalmente da persone visivamente abili». Marta racconta la sua storia nel libro “Quella che ero e quella che sarò”, ma già quest’affermazione dà una chiara idea della sua grintosa personalità: «Ogni giorno porto avanti il mio lavoro convinta che la disabilità non debba impedirmi di essere autonoma».
Riguardo alla sua posizione nel mondo della comunicazione e social media marketing, sostiene di sentirsi «solo un piccolo granello di sabbia che cerca un posticino adatto a sé»: come non sentirci suoi “cugini”, noi che siamo parte dell’associazione “Il granello di sale”? Per rafforzare la parentela abbiamo pensato di fare insieme una chiacchierata, da condividere con voi.
La tua storia dimostra che superare limiti, anche in ambito lavorativo, è possibile, eppure i pregiudizi persistono. Ad esempio, per qualcuno “è brutto” che un operatore di sportello sia non vedente: secondo te, da cosa nascono convinzioni come queste e come si possono superare?
«Tutto ciò che è esteticamente non convenzionale appartiene ad un ambito estraneo, da considerarsi “anormale” e per questo “brutto”. Sarà che la società sempre più si adagia su questa orrenda superficialità, come se quello che vediamo fosse più importante di quello che c’è in realtà dietro. Purtroppo ogni giorno viviamo pregiudizi e soprusi morali ed è triste dirlo. Questa società non è ancora pronta ad affrontare le difficoltà e per questo, chi le vive, viene messo da parte. Per quanto mi riguarda, ognuno ha la propria bellezza e questa bellezza non deve per forza corrispondere al guscio che vediamo.»
Handicappato, disabile, persona con disabilità…: i termini si evolvono, ma davvero il vocabolo in sé fa differenza? E, al di là dei termini usati, dove ancora occorre lavorare perché la disabilità sia considerata una condizione da gestire come qualunque altra condizione ordinaria che presenta criticità o, meglio, come insegnano a dire, aree di miglioramento?
«Dentro sto male quando sento termini inappropriati, ma ormai ci ho fatto l’abitudine. Forse non dovrei farci caso, ma quando sento “handicappato” è come se una parte del mondo mi crollasse addosso. Certo, nessuno me lo ha mai detto. In giro però la parola si sente ed è ancora diffusa, come se fosse convenzionale usarla. Ad ogni modo, bisogna mettere in conto anche che a volte non è detto in modo dispregiativo o offensivo e che, forse, proprio per via di quella convenzionalità si tende ad usare il termine come ad indicare in modo immediato proprio quello stereotipo, quel tipo di persona. Certo che bisogna lavorare, e anche tanto. Bisognerebbe lavorare nelle scuole e insegnare già ai piccolini come si deve rispettare il prossimo e, in questo caso, la “persona con disabilità”. Penso che, inoltre, bisognerebbe iniziare a riflettere sulle persone e concepirle non più come pesi, ma come risorse che portano ricchezza. Ricchezze economiche e morali, valori condivisibili che questa società ha bisogno di assaggiare maggiormente. Partendo da questo, si potrà avere una comunità migliore. Sono convinta che ciò che faccio e che fanno tante altre persone con disabilità sia un po’ speciale. Mi paragono sempre a chi ha la vista e mi dico: ma se bendassi tutte queste persone tanto protagoniste in questo mondo di trucchi e smalti, cosa si otterrebbe? Riuscirebbero a fare ciò che faccio io? Come lo farebbero? Veh, penso che in pochi ci riuscirebbero.»
“Sei in gamba”, “Ci conosciamo di vista”…: tante volte i cosiddetti normodotati compiono gaffe con le persone che hanno una disabilità. Ma, secondo te, l’imbarazzo ha motivo di esistere o basterebbe riderci su insieme?
«Io la prendo con simpatia. Anzi, sono la prima a riderci sopra. Condivido la spontaneità e l’allegria. Mi è capitato innumerevoli volte che qualcuno facesse un errore madornale, ma io l’ho sempre presa alla leggera rispondendo col sorriso e con una battuta. Secondo me sorridere e ridere è la miglior cura contro il pregiudizio e contro l’imbarazzo che gli altri provano quando si accorgono di aver commesso una gaffe.»
I social sono solo una delle ultime invenzioni che abbiamo trasformato in mania, di cui facciamo un uso a dir poco distorto: secondo te, perché noi uomini non riusciamo a utilizzare nulla in modo proprio ed equilibrato?
«Oggi come oggi tutto ciò che ci rende tranquilli e “liberi” viene poi usato a dismisura. Cosa dire sui social? Io ci passo gran parte della giornata per via del mio lavoro. Al di là di questo, posso confermare che la maggior parte delle persone usano i social network in modo del tutto inappropriato. Ci sono dei veri e propri maniaci, quasi dei malati. Selfie a go-go, post a valanga e poi? Quale sarebbe il senso del condividere quotidianità, intimità e banalità? A mio avviso, si dovrebbe condividere solo ciò che ci sentiamo di condividere. Qualcosa di significativo e non stupidaggini.»
Oggigiorno tutto passa per il web e i social: cosa ci aspetta nel futuro, un ulteriore sviluppo del virtuale o un ritorno al reale e al contatto diretto con le persone?
«Il mondo si evolve così velocemente che faremo fatica a tornare alla realtà. Usare i social non è un male (non potrei dire diversamente), solo che è un male usarli in modo scorretto. Bisognerebbe misurare il tutto e usare un po’ di gusto. Un po’ di contegno ci aiuterebbe, però il nostro futuro vivrà di questo. Almeno per ora è così.
Il contatto c’è anche oggi. Paradossalmente io ho avuto più supporto dagli sconosciuti di Twitter che dai miei vicini di casa (non me ne voglia nessuno). Anche a distanza si può conoscere e imparare e forse la chiave del buon uso dei social è in questo: prendere il meglio degli altri e farlo nostro, rilanciandolo. Sembra banale, ma è grazie ai social che migliaia di persone hanno conosciuto la mia storia traendone una piccola morale e – quindi – senza questi mezzi, in pochi l’avrebbero davvero letta.»
Salutiamo e ringraziamo tanto Marta per averci donato, con modestia e simpatia, un po’ della sua saggezza. Un ultimo assaggio di questa lo riprendiamo dal suo sito: «Nulla è impossibile e tutto è probabile. Basta volerlo».