Il Racconto della Domenica: La Cinese
di Francesca Lippi
Sembrava di essere dentro ad una di quelle cartoline illustrate ed io ne ero protagonista con mio figlio. Avevo scelto il molo per fare una passeggiata e sfuggire alla meglio alla calura di quel giorno di fine luglio. Ero, comunque, e posso dirlo senza ombra di dubbio, felice, ma tra virgolette, perché la felicità come tutti sappiamo non è di questa terra, credo. Non che poi m’importi molto saperlo. “Mi sono appena sposata” ho pensato nell’aggiustare il cappellino a mio figlio. Sembravo una nonna, attenta, forse un po’ ansiosa e lo ero, una giovane nonna di 45 anni, con un nipotino che abitava in un’altra città ed un neonato nel passeggino. Ho riso tra me e me. ” Ti sei appena sposata, sposata” ripeteva una vocina nella mia testa. Ero in viaggio di nozze nella costa labronica, che non è come essere alle Mauritius, ma forse è meglio, almeno per me. Mio marito che conosco da un bel pò di tempo, perché è stato il mio ragazzo negli anni ruggenti della contestazione giovanile, dopo i miei vagabondaggi sentimentali e dopo avermi riacciuffata casualmente, ha deciso di stare con me per sempre, perché a suo dire mi ha sempre aspettato, perciò è giunto ad una decisione definitiva: sposarmi, – almeno hai più difficoltà a scappare- commenta sempre ridendo. Questa cosa del matrimonio m’aveva riempito di una felicità enorme e m’aiutava, credo, ad accettare meglio le rughe sulla fronte e le “culotte de cheval” che noi donne eliminiamo tanto male, perché come spiega la scienza, il grasso accumulato è necessario alla riproduzione ed io avendo tre figli…avevo ormai sorvolato sul problema. Insomma, diciamo la verità, anche per me era arrivato il momento di fermarmi e lui mi sembrava il tipo giusto. Entrai nel bar senza accorgermene, spinta dalla forza dell’abitudine più che per un vero bisogno. Era scavato nella roccia e per questo particolarmente fresco ed accogliente.
Il bambino si è svegliato. Gli ho dato un po’ d’acqua ed una carezza leggera. Si è riaddormentato subito. Il barista, un uomo sulla quarantina, mi ha portato il caffè con noncuranza, senza vedermi, poi si è messo a parlare con la commessa, una ragazza alta, bionda ed appariscente, una bella figliola, insomma. Hanno parlottato per un po’, ridacchiando a bassa voce, poi lei è sparita dietro una porticina, così piccola che ha dovuto abbassarsi non poco per entrarci. Siamo rimasti io ed il barista a vegliare sul sonno del piccolo.
Lei è entrata. Minuta e coperta da un largo cappello di paglia. Sembrava cinese e forse lo era. E’ arrivata portando tutte le sue cianfrusaglie di un kitsch spaventoso ed ha cominciato a mostrarle a me e all’annoiato barista. Ho preso una moto per il bambino, anche se adesso è troppo piccolo e non può giocarci. ” La userà il prossimo anno” ho pensato. Lei mi ha sorriso, stanca. Loro sono entrati, come sanno entrare solo gli sbruffoni, carichi di ciondoli d’oro ben esposti sul petto, che tintinnavano al contatto col legno di pino del bancone dove s’erano appoggiati. Non mi sono piaciuti. Li ho guardati dritti negli occhi ed ho provato per un istante a vederli piccoli, come mio figlio. Le manine paffute, le guancette rosa, i piedini liberi… Uno di loro, forse il più solo di tutti, ci ha guardate a me e alla cinese, poi si è girato. Ha incontrato gli occhi del barista. “Dove hai messo le belle donne, le tieni nascoste nel retrobottega, eh?” Ha riso forte. Il barista gli ha dato corda, subdolo. – Le cose belle bisogna tenerle da parte- ha risposto. La cinese mi ha guardato, per un attimo. Gli occhi di chi ha capito. Le ho risposto muta. ” Non ci sono parole per questi due” ho pensato. Lei ha ripreso la sua roba. E’ uscita. I due hanno riso fragorosamente seguiti dagli altri. Ho preso il bambino e prima di andar via mi sono voltata a guardarli, ancora una volta. Loro, però, non mi hanno visto.