Il referendum abrogativo: non è tutto oro ciò che luccica

di Marcella Onnis

In queste settimane i sardi stanno ancora smaltendo i postumi dei cosiddetti “referendum anti-casta” per i quali sono stati chiamati alle urne lo scorso 6 maggio: 10 quesiti (5 di tipo abrogativo e 5 di tipo consultivo) su province, statuto, Presidente della Regione, consiglieri regionali e consigli di amministrazione di enti strumentali e agenzie regionali (maggiori dettagli sul sito istituzionale della Regione Sardegna: referendum 2012).
E, sarà la sindrome di Cassandra o forse semplicemente il richiamo della memoria storica, vien da pensare che gli effetti di questa “sbornia” si protrarranno per mesi, se non addirittura anni.

Su questi referendum come sul ruolo delle province c’era, c’è e ci sarà ancora tanto da dire, tant’è che molte voci ben più autorevoli della mia hanno già espresso il proprio punto di vista su questi temi. Tanto per citarne qualcuna: lucida e pungente Michela Murgia sui referendum regionali (http://www.michelamurgia.com/di-cose-sarde/politica/i-referendum-spiegati-al-mio-gatto); equilibrato, come d’abitudine, e ancora attuale a distanza di qualche mese Carlo Mochi Sismondi, presidente di Forum PA, sulla proposta di abolire le province.
Tuttavia, da elettrice e da sarda residente in una delle province che sarà abolita in virtù dell’esito referendario, sento di dover dire anch’io la mia, con la consapevolezza di essere abbastanza in controtendenza, visto lo stuolo di strenui difensori del referendum in generale e di questi ultimi in particolare. In controtendenza, ma comunque meno di quanto pensassi, stando alle conversazioni avute in queste settimane con colleghi, amici e conoscenti.

Ma partiamo dall’inizio. Quando, nel 2002, furono istituite le nuove quattro province (Carbonia-Iglesias, Medio Campidano, Ogliastra e Olbia-Tempio) non fui sicuramente l’unica a chiedermi se quella scelta fosse o meno opportuna. Già allora, infatti, per la maggior parte dei cittadini era difficile comprendere – e di conseguenza difendere – il ruolo di questi enti intermedi: a cosa servono? cosa fanno? ce ne servono davvero altri o potremmo fare a meno anche di quelli già esistenti? Arduo anche stabilire se questi dubbi derivassero – e tuttora derivino – dal fatto che effettivamente tali enti siano poco utili o, piuttosto, dal fatto che il loro impatto sulla vita del singolo individuo sia da questo percepito in misura minore rispetto a quello del Comune o della Regione. Del resto, un ente o organismo la cui presenza sia poco percepita dai cittadini non per forza ha un ruolo effettivamente poco influente sulla loro vita.

L’istituzione della provincia del Medio Campidano, in particolare, ha generato molte perplessità, basti pensare che più di uno dei suoi abitanti si è domandato in questi anni: “Che ce ne facciamo, qui, di una Provincia tutta nostra, se siamo quattro gatti?!”. Però, giusto per non farci mancar nulla, grazie al nostro tanto invincibile quanto ottuso campanilismo, siamo persino riusciti a dotarci di ben due capoluoghi di provincia.
Il culmine del ridicolo, tuttavia, l’abbiamo toccato qualche anno fa, quando, in un servizio televisivo, alcuni amministratori locali  scelsero di difendere l’esistenza di questo ente con argomentazioni che –  a voler esser generosi – potremmo definire pittoresche: “Ma noi qui coltiviamo prodotti di qualità come il melone coltivato all’asciutto o il carciofo!”.

Utili o no, comunque sia queste nuove province sono diventate realtà. E certo non lo sono diventate senza “patimenti”: anni per trasferire le funzioni dalle “vecchie” alle nuove articolazioni; mesi e mesi per trasferire il personale, riorganizzare gli uffici e dare modo ai cittadini di abituarsi ad avere nuovi interlocutori istituzionali. Per non parlare della “ostilità” del Governo centrale rispetto a questi nuovi enti. Ricordo ancora come fosse ieri un giorno in cui, poco tempo dopo la loro istituzione, mi recai in banca e alla domanda “Provincia di residenza?” risposi titubante “Medio Campidano”: l’impiegato mi guardò e, con sufficienza, mi rispose: “Signorina, per il Ministero dell’Interno questa provincia non esiste.” Inutile sarebbe stato spiegargli che, fosse stato per me, avrei potuto tranquillamente continuare ad appartenere alla provincia di Cagliari.

Poi è arrivata l’era dei tagli e della “caccia alla casta”, che nelle province ha trovato, a tutti i livelli territoriali, un primo facile bersaglio. E i sardi, a quanto pare, saranno i primi a poter ostentare gli scalpi delle loro vittime.
Il comitato pro-referendum non ha ancora sotterrato l’ascia di guerra ed è, anzi, più battagliero che mai. Ancora danza e canta al ritmo di un inno marziale che racconta di una volontà dei sardi espressa in modo schiacciante.
Mi perdoni, dunque, questo esercito di giustizieri se non porto rispetto per il loro momento trionfale e sorrido all’udir questo inno. Mi perdoni, se non riesco a considerare schiacciante il responso di una consultazione a cui ha partecipato in media il 35,50% degli elettori sardi, cioè poco più di 1 su 3. Sicuramente più significativo fu, infatti, l’esito del referendum consultivo sul nucleare indetto lo scorso anno, in cui i “sì” raggiunsero all’incirca la stessa percentuale (97,13% nel 2011; una media del 97% per i quesiti di quest’anno relativi all’abolizione delle 4 “nuove” province) ma a votare fu ben il 59,52% degli elettori sardi.
Di quanto costi per le casse pubbliche mantenere in vita le province se n’è parlato in abbondanza, così come di quanto costeranno i vari ricorsi promossi dall’Unione delle province d’Italia (Upi) per tentare di bloccare questi referendum. Ma anche questa tornata elettorale ha comportato costi ingenti, non dimentichiamolo. Costi che non è così facile giustificare in nome della difesa della democrazia e della volontà popolare (concetti ormai abusati e sempre più strumentalizzati), soprattutto se si considera che tra i sostenitori di questi referendum ci sono esponenti di partiti, come i Riformatori, che siedono in Consiglio, per giunta tra le fila della maggioranza, e c’è lo stesso Presidente della Regione. Persone, cioè, che hanno gli strumenti per attuare ciò in cui proclamano di credere e che, soprattutto, noi già ordinariamente paghiamo per tradurre in fatti la nostra volontà, perlomeno quella di chi li ha eletti. Dunque, ora tutti quanti, compresi coloro che non li hanno votati a suo tempo, pagheremo un nuovo “tributo” perché questi signori facciano ciò per cui – almeno in teoria – già li stavamo pagando.

Comunque sia, che ci piaccia o no, almeno le quattro brutte anatroccole (Carbonia-Iglesias, Medio Campidano, Ogliastra e Olbia-Tempio) son state accoppate … e non sapremo mai se almeno qualcuna di loro sarebbe diventata un bel cigno.
Dunque, cosa accadrà ora? Forse torneremo allo status quo ante 2002, per cui assisteremo di nuovo a trasferimenti di funzioni, personali e uffici. E di nuovo i cittadini dovranno cambiare interlocutore istituzionale e, in qualche misura, appartenenza. Ma questi cambiamenti cosa sono se non altri costi? Come si può pronunciarsi per l’abolizione di un ente considerando solo il risparmio diretto che ne discenderebbe, senza tenere in benché minimo conto i costi indiretti che una simile scelta necessariamente comporterebbe? C’è soprattutto una voce di questo prezzo da pagare che molti non avevano considerato prima del voto: l’instabilità che, abolendo le province, sarebbe ricaduta sul personale che per loro ha finora prestato servizio. I precari con molta probabilità si ritroveranno ben presto disoccupati, ma anche per i dipendenti il futuro non è roseo: forse saranno trasferiti ad altri enti, magari in altri paesi e città; forse saranno licenziati; forse saranno messi in mobilità. Vista l’emergenza sociale ed economica che stiamo vivendo, non curarsi della salvaguardia di tanti posti di lavoro è una mancanza che non si può perdonare, né ai governanti né agli elettori.

Ancor più preoccupante sarebbe la situazione se si decidesse di sopprimere tutte le otto province. Una proposta azzardata che bisognerebbe vagliare con cautela, come forse ha pensato anche buona parte degli elettori che lo scorso 6 maggio si sono recati alle urne: per il referendum consultivo sull’abolizione delle province storiche (Cagliari, Nuoro, Oristano e Sassari) ha, infatti, votato “sì” solo il 65,98%. Del resto, sarebbe piuttosto curioso – per usare un eufemismo – abolire una tipologia di ente che continuerà ad esistere nel resto d’Italia, seppur notevolmente trasformata alla luce dell’art 23 del decreto-legge n. 201/2011 (convertito dalla Legge n. 214/2011).

Per ora il Consiglio regionale, a suon di scontri (non solo verbali), lo scorso 24 maggio ha approvato una legge con cui ha preso tempo: in attesa del riordino complessivo degli enti locali – da regolare con una successiva legge – gli organi provinciali in carica sono stati prorogati sino al 28 febbraio 2013.

Ora, probabilmente è vero che, senza i referendum, i tempi per questo riordino sarebbero stati più lunghi, ma valeva la pena spendere tutti questi fondi pubblici per avere una o più leggi che avremmo potuto pretendere e ottenere grazie ai “soli” fondi con cui paghiamo le indennità dei consiglieri regionali?
Checché ne pensi il comitato pro-referendum, infatti, non è pensabile che la fase “post-abolizione” non venga regolata da una legge. Né si può credere veramente che sia giusto e opportuno liquidare in quattro e quattr’otto una questione tanto delicata: ne discenderebbero, infatti, decisioni il cui tiro dovrebbe poi essere rettificato in corso d’opera con operazioni sicuramente non indolore.
Il rischio, poi, che le decisioni  di chi governa i sardi possano non rispettare la volontà di chi ha preso parte al referendum, beh, chi ha votato doveva metterlo in conto: la vicenda del finanziamento ai partiti fa scuola.

Sia quest’ultima vicenda che quella delle province sarde rafforza – se mai ce ne fosse stato bisogno – la mia personale (e, pertanto, discutibile) diffidenza verso il referendum in generale e verso il referendum abrogativo in particolare.
Lungi da me metterne in discussione il valore, ci mancherebbe: quale strumento di democrazia diretta, esso consente un’espressione non mediata, “genuina” e – almeno teoricamente – non manipolabile della volontà popolare. Ma è anche vero che, proprio per via della sua “potenza”, non se ne dovrebbe abusare.

Innanzitutto, dobbiamo sempre ricordarci che il nostro Paese si regge su un sistema di democrazia rappresentativa. Noi, cioè, abbiamo scelto di farci governare da una classe dirigente che, con metodi variabili nel tempo, noi stessi selezioniamo. E questi governanti li paghiamo (profumatamente) in base al presupposto  – ormai più teorico che pratico – che per fare buone leggi servono professionisti competenti in materia, persone che facciano questo “di mestiere”. Del resto, forse che un malato che sceglie di medicarsi da sé si cura meglio di chi si affida ad un bravo dottore?
Non sarebbe, quindi, meglio ricorrere al referendum solo quando c’è da decidere su questioni per cui la coscienza del singolo ha assoluto bisogno e pieno diritto di esprimersi senza intermediari? Negli altri casi, meglio sarebbe far lavorare i nostri legislatori, obbligandoli con altri mezzi a meritarsi lo stipendio e a tenere fede ai programmi elettorali: il referendum dovrebbe essere l’ultima carta da giocare quando costoro non recepiscono i nostri stimoli … e alle successive elezioni poi, però, dovremmo anche fare in modo che lascino libere le poltrone che non sono degni di occupare.

Tra l’altro – siamo onesti – tante volte non è facile per il cittadino medio esprimere un voto consapevole sui quesiti posti in occasione dei referendum, vuoi perché sono espressi in modo oscuro, vuoi perché su certe questioni è difficile riuscire a ricostruire il quadro completo: ai “non addetti ai lavori” manca quasi sempre qualche elemento di valutazione. E si sa che dove c’è un vuoto informativo la strumentalizzazione politica ha gioco facile.

Infine, non dimentichiamo che, a volte, è meglio una legge sbagliata – che si può sempre migliorare per mano del legislatore – piuttosto che un vuoto normativo.

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