‘In A Better World’: la Danimarca nel G6 del cinema mondiale
Torna nelle sale italiane da vincitore In A Better World, film danese prodotto da Zentropa di Lars Von Trier e premiato come ‘miglior film straniero’ alla notte degli Oscar. Un lavoro che costringe il nostro cinema, provinciale e un po’ ripiegato su se stesso (Vincere di Marco Bellocchio e La Prima Cosa Bella di Paolo Virzì non avevano certo lo status tecnico e il respiro internazionale per finire al Kodak Theatre nel G6 del cinema mondiale), ad una profonda analisi del suo reale stato di salute.
Susanne Bier già ai tempi dell’intreccio di Non Desiderare La Donna Di Altri aveva alternato esterne in Europa e Arabia Saudita. La stessa formula viene ripresentata, in modo non meno ideologico, nei primi minuti di In A Better World, ambientati in un campo ospedaliero di un villaggio africano: un incipit produttivamente così ardito da risultare uno schiaffo in faccia ai giovani registi nostrani, ormai incapaci di guardare aldilà del mediterraneo e magari produrre una riflessione seria, che non si risolva nelle goffe scenette sub sahariane di Italians o La Vita Facile .
Sontuoso, invece, è il modo in cui la Bier ci fa entrare nella vita di questo medico danese di frontiera che, tornando a casa nella sua civilissima Danimarca, si accorge che qualcosa non funziona anche “in questo mondo migliore”. Un mondo presentato attraverso il comfort e la sicurezza di teutoniche berline di grossa cilindrata, ineccepibili arredamenti dal design scandinavo e architetture orizzontali in dialogo coi fiordi e i salici circostanti, anche se in modo non retorico.
Tutti elementi che testimoniano i più elevati standard di vita al mondo e compongono lo sfondo di una vicenda che scandaglia il rapporto padre-figlio, formulando una riflessione non del tutto originale sulla violenza. Colui che in Africa è un dottore ippocraticamente irreprensibile, nelle Danimarca delle città sperdute tra le sonnolenti brughiere e le isole lungo la costa è un padre che ignora le frequentazioni del figlio adolescente con un algido compagno di scuola, segretamente dominato da una rabbia cieca e inesplosa verso gli altri.
Susanne Bier, che stilisticamente si diverte a incrociare l’aspetto cristallino e ovattato di porte a vetri, piastrelle in metallo e chiome bionde con inquadrature taglienti, scelte ottiche discontinue e un montaggio volutamente brusco, indaga su personaggi solitari che sbagliano per eccesso di altruismo, etica e zelo, ma la tesi che la violenza possa provenire anche dall’idealismo non è certo un asserzione originale, così come non lo è la Frommiana idea di traumatico passaggio da attaccamento materno ad attaccamento paterno, che genera nevrosi.
Eppure, rimanendo lucida a tali eccessi di retorica, la Bier ci regala una scena tra le più forti di tutto il 2010 cinematografico, in cui il padre si lascia schiaffeggiare da un rozzo meccanico davanti ai due ragazzini, per insegnare loro la forza del coraggio e della ragione. In fin dei conti, il punto di forza di In A Better World risiede sempre nelle scelte visive, nel senso del ritmo e in un linguaggio cinematografico a metà strada fra il manifesto Dogma e le tendenze più cool del melodramma contemporaneo (si noti Revolutionary Road di Sam Mendes), mentre la trama in sé non è esente da lungaggini e risvolti prevedibili.
Non sappiamo dire se l’Oscar o il Marco Aurelio d’Oro al Festival di Roma siano stati del tutto meritati, ma se il cinema italiano volesse ricominciare a guadagnare terreno nei confronti di quanto proviene dal Nord Europa, inizi con l’aprirsi alla perizia tecnica, la personalità autoriale e il progetto intercontinentale che fonda In A Better World, e faccia dell’annuncio delle riprese lungo la costa amalfitana di All You Need Is Love, prossima fatica della Bier, l’occasione giusta per aprire un confronto tra le maestranze e i metodi produttivi dell’Italia con altri mondi, che attualmente sembrano migliori.
Andrea Anastasi