Incontro con Alpidio Balbo del Gruppo Missionario Merano
di Ernesto Bodini
(giornalista – biografo)
Si dice che gli incontri conviviali siano fine a sé stessi. Ma in realtà non è sempre così specie se alla base di questi vi è la ricerca (e la scoperta) di “protagonisti” del volontariato, il cui vissuto è ricco di esperienze tanto toccanti quanto utili per il nostro bagaglio… esistenziale. È il caso, ad esempio, dell’incontro che ho avuto con “papà” Alpidio Balbo (nella foto), un trentino d’adozione “doc” e veterano della solidarietà umana verso popolazioni a noi lontane che lui ha raggiunto e aiutato con innumerevoli iniziative volte alla loro sopravvivenza e rispetto della dignità. Classe 1931, una moglie (Carmen) e due figli (Stefano e Manuela). Ex imprenditore benestante di Merano, è fondatore nel 1971 del Gruppo Missionario Merano (GMM), una onlus forte di 50 soci (7 membri del Direttivo) e oltre 5.000 benefattori in tutta Italia che da oltre un quarantennio sostengono la popolazione del Benin, uno Stato dell’Africa occidentale, precedentemente conosciuto con il nome di Dahomey che oggi conta oltre 11 milioni di abitanti che ogni giorno “rincorrono” ogni fonte di alimento come cibo e soprattutto acqua che, da decenni, viene loro garantita grazie alla progettazione e realizzazione di pozzi per merito del GMM. Non è certo l’unica realtà esistente nel vasto panorama internazionale del volontariato, ma questa non è altrettanto priva di quel fascino caratterizzato dal suo fondatore e dai tanti giovani collaboratori diretti dal giornalista Roberto Vivarelli. Il mio incontro con Balbo è di una domenica a pranzo, comunemente invitati a Torino dalla volontaria del GMM Valentina Soldo e sua mamma Gaetana, una ghiotta occasione per conoscerlo e per una intervista che mi concede con l’entusiasmo di un “padre” che ha molto da dire per entrare nell’animo di chi lo vuole ascoltare.
Papà Balbo, quando e come nasce il suo percorso di missionariato?
“Ricordo come fosse oggi, e come più volte ho raccontato in varie interviste. Era il 4 marzo del 1971. Doveva essere solo una commissione per “far piacere” a mia moglie Carmen (che, di fatto, ha cambiato la mia vita). Da turista mi sono recato in quella che oggi è la Regione del Benin, anche per recapitare una lettera ad una suora che lavorava in quella Regione africana. Da quel semplice atto di latore-corrispondente il coinvolgimento è stato totale: in poche ore ho visto morire di stenti sei bambini, ed io turista abbronzato e vestito di tutto punto, all’improvviso mi sono sentito spogliato di quella agiatezza divenuta fuori luogo… Da allora mi sono ripromesso che avrei dedicato tutto me stesso, privandomi di ogni avere materiale, coadiuvato da mia moglie e da mio fratello Danilo (oggi scomparso) che mi ha sempre accompagnato e fatto da interprete perché conosceva molto bene il francese”
Quali sono state le prime esigenze da concretizzare, e quali le principali difficoltà?
“Non conoscevo l’Africa ma quando mi sono recato a Bohicon, un Centro di nutrizione per bambini, per recapitare quella lettera della madre alla figlia suora del posto, mi sono ritrovato nel baratro dell’indigenza più estrema, quasi incredulo nonostante avessi di fronte ai miei occhi la sofferenza e la morte che si portavano via piccole anime innocenti, strappandole al grembo materno. Una realtà a dir poco ben distante dalla mia provenienza…”
Come si sono instaurati i rapporti con le popolazioni locali?
“Prima di ripartire per l’Italia sono rimasto in quella Regione tre giorni (avevo quarant’anni) chiedendo alle suore (appartenenti all’Ordine francese “Figlie del Cuore di Maria”) cosa avrei potuto fare per loro di fronte a tanta sofferenza e povertà. E loro, con grande dignità, mi hanno dato un elenco di alcuni tipi di medicinali di cui avevano urgente bisogno. Una richiesta che, al mio rientro in Italia, mi sono prodigato per soddisfare”
Tra i progetti realizzati quali hanno richiesto il maggior sforzo di risorse umane ed economiche?
“In particolare la costruzione di pozzi per l’approvvigionamento di acqua a causa di lunghi periodi di siccità e della quasi totale carenza di questo bene potabile. Soprattutto nella regione del nord mancava inoltre la corrente elettrica per cui bisognava allestire gli opportuni impianti, dove mi sono recato alcuni anni dopo con mezzi (anche economici) e vari collaboratori dalle specifiche competenze, rendendomi sempre conto che miseria e sofferenza regnavano sempre più incontrastate”
Quanti volontari hanno seguito sinora il suo cammino?
“Sicuramente non pochi, considerando le esigenze non solo economiche ma anche quelle delle varie e specifiche competenze operative”
Si dice che chi fa del bene al prossimo solitamente è ispirato da una fede o un credo. E così?
“No. Ritengo che non ci sia un credo o una fede ma piuttosto un’anima; è forse questa una sorta di contraddizione ma in realtà a mio modo di vedere è un qualcosa di profondamente interiore che può spingere una persona a dedicarsi al prossimo bisognoso”
Si dice anche che dedicarsi agli altri appaga e ci rende più buoni. E così anche per lei?
“Si. Oggi non riesco più a vedere nel prossimo la cattiveria; anzi, ritengo che molte persone vivano anche loro in una sorta di disagio esistenziale tanto che anche loro stesse avrebbero bisogno di quel sostegno che sta tra la mera comprensione e la solidarietà. In Benin ho visitato anche le carceri vendendo nei detenuti espressioni smarrite e alla ricerca di un incontro, magari fugace, ma se non altro come atto di vicinanza e fraternità”
Ma agire per il bene altrui non sempre sono sufficienti le buone intenzioni in quanto è indispensabile avere una maturità, e quindi anche una certa predisposizione per questo o quel ruolo. Qual è il suo pensiero in merito?
“È vero quello che lei afferma, e che non sempre, aggiungerei, si è nella condizione di poter fare qualcosa per gli altri; e questo, richiede in ogni caso una “rivisitazione” in sé stessi, e nello stesso tempo una valutazione critica per stabilire se si è nelle condizioni migliori per proporsi al prossimo in modo da non disperdere il proprio patrimonio di generosità”
Papà Balbo, oltre 45 anni al servizio degli altri. Davvero una vita spesa con totale dedizione. Cosa le ha insegnato questo lungo periodo accanto ad una popolazione a noi… distante?
“Mi ha insegnato a concepire in modo concreto una realtà che in qualche modo ho fatto mia, soppesando sia gli aspetti positivi che negativi; un modo di porsi, il mio, che mi ha portato ad essere più umile e più “distante” dai beni materiali di cui godevo un tempo. Oggi, sono più sereno ed appagato interiormente e il mio animo è confortato dal fatto di essermi speso per i meno abbienti come meglio ho potuto”
In un mondo sempre più oppresso da eventi che ledono la dignità umana, per ristabilire un equilibrio è sufficiente prendere esempio da azioni benefiche, come nel suo caso, oppure bisogna fare di più?
“Certamente sarebbe ottimale poter fare meglio e di più verso chi ha bisogno, e questo in tutti gli ambiti della umana solidarietà. Ma quello che conta, a mio parere, è rendersi disponibili secondo le proprie possibilità, senza primeggiare e con umiltà”
Ma in questo mondo c’è anche molto pseudo volontariato e voglia di apparire. Sono fenomeni che si possono… contrastare?
“Ritengo che per certi versi ciò sia possibile compiendo le proprie azioni senza clamori a dispetto di quanto ci viene propinato ogni giorno dai mass media. La saggezza vuole che la via della grandezza passa attraverso il silenzio”
Se potessimo entrare nel suo animo, fino in fondo, cosa potremmo trovare, oggi?
“È certamente una domanda toccante e mi sento di dire che si potrebbe trovare un animo ormai affaticato per essermi reso disponibile e attivo per così tanti anni; ma anche un animo più sincero di un tempo, più onesto, più coerente con una scelta che ha “rinnovato” la mia esistenza insegnandomi (come mai avrei immaginato) che nemmeno un buon libro può trasmettere quelle nozioni che dicono alla propria coscienza che non è mai troppo tardi per essere utili al prossimo”
Foto di Valentina Soldo