Io ballo da sola ma senza l’I-phone
Una ragazzina, qualcuno direbbe ancora bambina, appena entrata nel mondo dei ‘teen’, si avvicina con curiosità alla scienza, attraverso il lavoro del suo babbo.
Che cosa vuol dire fare scienza? Con innocenza e verità ricerca le sue risposte nell’esempio del padre, ricercatore di fisica da anni, forse da tutta la vita.
Una passione, quella di Franco Bagnoli, che guida Margherita, a emancipare un pensiero autonomo e indipendente.
Margherita è come tanti ragazzi della sua età che scelgono di non appartenere ad un clichè, che non si identificano nell’etichetta di superficialità spesso a loro impressa, che cercano la loro strada, mostrando al contempo fragilità e determinazione, nelle cose vere della vita.
Il testo che segue è un’ opportunità di conoscenza per tutti noi. Buona lettura.
Sabrina Paladini
Il mestiere del mio babbo.
Di Margherita Bagnoli
Cosa faccia mio padre è sempre stato per me un mistero. Una volta, in prima o seconda elementare, mi dettero da fare un tema intitolato “descrivi il lavoro o l’occupazione dei tuoi genitori”. Già non era stato facile per me capire cosa faceva la mamma, ovvero che salvava il mondo dato che lavora nell’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente, ma in fondo basta pensare a Superman e il tutto diventa più chiaro. Invece cosa faceva il babbo era un mistero.
Sapevo che lavorava all’università come ricercatore, e che la sua occupazione principale era la ricerca, ma cosa ricercava? Qualcosa che aveva perso? O che era stato perso? Non aveva per nulla l’aspetto del cercatore di tesori o di pepite o almeno di reperti storici (tipo Indiana Jones) o di fossili, quindi scrissi che faceva il falegname, dato che ogni tanto effettivamente tagliava qualche legno giù in garage.
Però, in occasione di questo concorso, sono andato da lui chiedendo di spiegarmi bene cosa combina tutto il santo giorno, e soprattutto cosa fa veramente quando dice che va a qualche congresso all’estero. Ormai sono grande e posso accettare qualsiasi verità, anche che lui abbia una occupazione illegale o immorale.
Il babbo mi ha spiegato che non fa nulla di illegale né di riprovevole, e questo ha diminuito la già poca stima che ho di lui. Fa il ricercatore di fisica teorica, anche se poi in realtà si occupa di tutt’altro: biologia, evoluzione, cervello e anche informatica. Ma non sviluppa app per il telefonino, quindi il suo mestiere non dev’essere poi così importante. Infatti mi ha confermato che nulla di quello che “trova” si può vendere, tranne forse tra qualche decina o centinaia di anni, ma che comunque lui non l’ha brevettato e quindi non ci guadagnerà nulla (e io non erediterò nulla, il che è più grave). Gli ho domandato: “perché non studi solo le cose che porteranno poi a dei brevetti convenienti”? Lui ha ridacchiato e mi ha risposto: “Sei proprio una italiana! Sei convinta che noi siamo i più furbi del mondo!”. “Ma almeno sai che stai cercando nella direzione giusta?”, gli ho chiesto. “A dire la verità”, mi ha risposto, “quello che faccio è simile a cercare un mazzo di chiavi perso in una strada buia. Sarebbe meglio cercare vicino a dove è stato perso, ma dato che lì è troppo buio quello che faccio io e che fanno anche tutti gli altri è cercare sotto il lampione”. Che scemenze!
Lui passa il tempo davanti ad un computer, ma non guarda video su youtube (se non riguardano qualche cosa di scientifico), non chatta (tranne qualche volta con i suoi “colleghi”), non scarica musica o film (e se lo fa si tratta sempre di musica vecchia e di film in bianco e nero, puah!), non gioca. Insomma, non sa usare veramente il computer. Invece lui scrive programmi che “simulano” qualcosa, e scrive articoli soffrendo tantissimo fino a tarda notte e lamentandosi. Però poi questi articoli non fanno ridere (e sono in inglese!) e sono pubblicati su giornali sconosciuti che sono sicura nessuno leggerà mai. Perché fa queste cose? E soprattutto: come fa ad essere pagato? Lui lavora all’università, e qualche volta fa lezione, e questo lo capisco (ma non capisco perché gli studenti vadano a sentirlo se non sono obbligati). Ma perché l’università, o lo stato (da cui vengono i soldi) sono interessati a quello che studia il mio babbo, dato che non serve a nulla?
A questa domanda il mio babbo mi ha detto che in fondo avere degli scienziati rinomati è come avete degli atleti olimpionici: il fatto che un corridore vinca la medaglia d’oro non porta nulla in termini monetari, ma avere tanti campioni è prestigioso per uno stato: vuol dire che il sistema dell’educazione fisica funziona, perché per “costruire” un olimpionico bisogna partire da tantissimi allievi. Così per avere un premio nobel bisogna “tirare su” tanti scienziati inutili. Ma come l’investimento sull’educazione fisica porta poi a dei benefici per tutta la popolazione, così avere un corpus di ricercatori all’avanguardia vuol dire dare una formazione di buon livello anche per il resto della popolazione. E poi, dice, il fatto che quello che scrive venga letto e apprezzato non ha molto a che vedere con l’assoluta importanza del soggetto, quanto che esista una comunità di altri scienziati che stanno studiando argomenti simili. In fondo, aggiunge, è come per la musica: un genere musicale esiste se c’è una comunità di persone che apprezza quella musica. Non esiste il musicista isolato.
Forse comincio a capirci qualcosa: fare ricerca vuol dire cercare di essere primo in qualcosa, anche se questo qualcosa non è che si capisca proprio bene a che serve. Sarà. Io però preferirei avere un babbo calciatore famoso o rockstar.