La Comunicazione Verbale e Scritta nel nostro Paese scivola troppo nella lingua inglese
Tra burocrazia, purismo ed “ecologia linguistica”. Ignoranza ed arbitrio ad onta del buon comunicare sono i primi ostacoli di chi non vuole erudirsi
di Ernesto Bodini (giornalista e opinionista)
Ah, questa benedetta comunicazione! Quanto ci fa soffrire ogni volta che la tiriamo in ballo ad onta dei linguisti nostrani e comunque degli osservanti del “bon ton” della Lingua italiana; mentre assai indifferente è la gran parte della popolazione. Si dice che l’uomo mediamente colto e/o istruito usi circa 2 mila vocaboli al giorno, l’uomo della strada (non è un eufemismo e nemmeno mancanza di rispetto) ne usa poco meno di 800. Una discreta differenza che farebbe discutere, ed ancor più se vogliamo coinvolgere gli incalliti burocrati che, per quanto eruditi (?), impoveriscono il loro lessico con l’uso indiscriminato del cosiddetto “burocratese”. Nei confronti di costoro ci sarebbe da dedicare un intero capitolo, sia perché il loro modo di comunicare è un vezzo duro a morire sia perché non facilita la comprensione del cittadino-contribuente (si badi che ho evitato il sostantivo “utente”). Soffermandomi, sia pur in sintesi su questo aspetto, ritengo particolarmente utile richiamare l’attenzione proprio sul linguaggio amministrativo, patrimonio incontrastato dei dipendenti della P.A. di ogni entità, e a tal riguardo esiste un vero e proprio manuale di detto linguaggio che vuole essere più vicino al cittadino, ma che purtroppo ancora oggi stenta ad essere applicato un po’ ovunque… specie al Sud (ovviamente senza discriminazione, in quanto è noto il retaggio storico-culturale). Ma cosa si intende per comunicazione pubblica? È una tecnica fatta di esperienza e di professionalità (per il vero assai carente), che si rivela ancor più delicata quando concerne le pubbliche istituzioni le quali, dovendo coniugare il loro ruolo politico con quello amministrativo, non possono rinunciare a quelli che sono i canoni basilari della deontologia dell’esercizio delle pubbliche funzioni. Il dovere di informazione va contemperato con gli altrettanto fondamentali doveri costituzionali di riservatezza, imparzialità e correttezza. La P.A. comunica (o dovrebbe comunicare) per far partecipi i cittadini alle loro esigenze e decisioni assunte e alle opportunità offerte, ampliando la dimensione sociale della comunicazione stessa. Ed è qui che deve attivarsi l’impegno a costruire (e mantenere) un nuovo rapporto di conoscenza e maggiori visibilità e fiducia tra P.A. e cittadini-fruitori. Ma non si può parlare di buona comunicazione istituzionale se gli addetti della P.A. si esprimono con un frasario più o meno arzigogolato se non ricercato e sempre più arcaico. Ecco qualche esempio tratto dal loro frasario, con il suggerimento: invece di scrivere così, meglio scrivere così. «All’uopo esibisce il benestare dell’attuale intestatario» (perciò presenta la dichiarazione con cui l’attuale abbonato accetta); «Locale in sito» (appartamento/ufficio/negozio che si trova in…); «Chiede di rilevare tale utenza» (chiede di diventare l’utente del telefono intestato a…); «Requisiti necessari: impossidenza di altra abitazione» (requisiti necessari: non possedere abitazione); «Ove il richiedente sia coniugato o nubendo» (se la persona che chiede le agevolazioni è sposata o sta per sposarsi); «Esperimento della licitazione» (produrre la documentazione completa); «Acquiscenza» (accettazione degli effetti di un atto della P.A.); «Equipollenza» (provvedimento della P.A.); «Vidimare» (timbrare o firmare); etc. Questi esempi sono un minimo campione del lessico scritto dei burocrati, ma ci sarebbe molto da disquisire sulla comunicazione verbale in pubblico e per telefono che, in non pochi casi, si trasforma in delirio per il cittadino il quale, se non comprende, spesso viene “esonerato” dal proseguire nel colloquio specie se per telefono. L’ignoranza e la supponenza del burocrate sono sostenute dal suo strapotere perché è lui che sta dall’altra parte della scrivania e quindi… del comando. Ecco che la comunicazione, oltre che essere deleteria e inconcludente, a volte compromette i diritti del cittadino-fruitore che, “penalizzato”, il più delle volte si arrende sia pur imprecando o sfogandosi scrivendo a qualche rubrica dei giornali.
Ma tornando alla comunicazione sociale più in generale, recentemente Valeria Palumbo ha pubblicato un interessante articolo dal titolo “L’italiano c’é perché non usarlo?”. Si tratta di una disquisizione sul fatto che la nostra Lingua è poco usata nel modo dovuto, in quanto molti vocaboli (di cui è assai ricca) sono sostituiti da quelli inglesi, tanto che perfino il presidente del Consiglio Mario Draghi (nella foto), in una recente conferenza stampa si è domandato il perché di un uso eccessivo dell’inglese. Un’osservazione tanto reale quanto acuta soprattutto in ragione del fatto che sono ancora molti gli italiani che non hanno (e non avranno) dimestichezza con tale lingua, sia pur oggi di dominio internazionale; tant’è che persino gli slogan pubblicitari sui nostri mezzi di comunicazione (giornali, manifesti e televisioni) ricalcano i messaggi in inglese. L’autrice dell’articolo cita una serie di termini in inglese (ormai noti) con relativa traduzione in italiano. Per mera curiosità ne cito alcuni. “Caregiver” (badante), “Device” (dispositivo), “Lockdown” (confinamento), “Premier” (presidente del Consiglio), “Recovery Fund” (fondi per la ripresa), “Smart working” (lavoro da remoto), “Spending review” (revisione della spesa), “Voucher” (buono o ricevuta); etc. A questo punto io mi chiedo: perché così tanta inclinazione di noi italiani verso la lingua inglese? A mio modesto avviso, a parte l’internazionalizzazione della lingua, penso si tratti anche di una sorta di “fascino” che consiste nella padronanza del comunicare distinguendosi gli uni dagli altri, quindi fa “chic” e “snob” come, quando per una sorta di analogia, qualche decennio fa molti lettori (soprattutto) giovani dall’aria intellettuale ostentavano sotto il braccio i quotidiani La Repubblica o Il Sole 24 Ore, indossando rigorosamente i cosiddetti “occhiali da professore”, un cliché che nel tempo si è più o meno dissolto anche perché ci sono meno giornali e si legge molto meno. E che dire del modo di comunicare degli oratori e dei moderatori in sede di convegni e conferenze? Anche per questi deputati ad intrattenere il pubblico il compito non è facile, ancor più quando tendono ad usare qualche termine inglese ostentando saccenteria… Il ruolo del relatore, ad esempio, non solo richiede ovviamente la conoscenza dell’argomento evidenziato in programma, ma anche avere egli stesso padronanza con la lingua (per noi italiana) e una buona dizione e capacità di sintesi; oltre ad un adeguato atteggiamento che sappia far fronte in modo intelligente alle eventuali obiezioni qualora venisse interrotto, o mal “apostrofato” da parte del pubblico. Dicasi altrettanto per il moderatore, figura cardine della comunicazione in quei contesti ma, per tutti, vale ancora l’osservazione di Galileo Galilei (1564-1642): «Parlare oscuro lo san fare tutti, ma chiaro pochissimi».