La controinchiesta di Kamel Daoud sullo straniero Mersault
Leggere “Il caso Mersault” è come farsi schiaffeggiare da una mano infilata nel più raffinato dei guanti. C’è durezza, a volte ferocia, in questa storia e nelle considerazioni poste in testa al suo narratore Haroun dall’autore, l’algerino Kamel Daoud. Eppure, anche il concetto o l’immagine più scomoda è tratteggiata con una scrittura elegante, evocativa, spesso poetica.
Come suggerisce il titolo (meglio ancora l’originale francese “Mersault, contre-enquête”, che – chissà perché – s’è scelto di non tradurre fedelmente), il romanzo fa da controcanto a “Lo Straniero” di Albert Camus. La trama di quest’ultimo è da Haroun così riassunta: «È la storia di un delitto, ma l’arabo non è neppure ucciso – diciamo che lo è come di sfuggita, come in punta di dita. Lui è l’altro protagonista, eppure non ha un nome, non ha un volto, né parole». L’assassino, centrale nel romanzo di Camus, è, appunto, Mersault, mentre la vittima – “l’arabo”, rimasto in quel libro senza nome – nel romanzo di Daoud acquista un nome e un’identità: Moussa, fratello maggiore di Haroun. Quindi, quella narrata dallo scrittore e giornalista algerino che storia è? Ancora una volta lo spiega Haroun: «Non è una banale storia di perdono o di vendetta, è una maledizione, una trappola». In qualche misura anche per chi legge… ma ciò non è affatto un male.
Ci si può approcciare a questo romanzo partendo da differenti chiavi di lettura, alcune delle quali piuttosto fantasiose e probabilmente opinabili, come ha lasciato intendere lo stesso Kamel Daoud nel corso del XIX Festival della letteratura di Mantova. Una di queste chiavi di lettura è la storia dell’Algeria, in particolare la guerra per l’Indipendenza dalla Francia (cruenta e non priva di conseguenze negative come ogni guerra, anche civile) e il rapporto tra questi due Paesi, che appare caratterizzato da una sorta di sindrome di Stoccolma. Tuttavia, su questo tema – come su altri affrontati da fonti ben più autorevoli a Mantova, durante la prima presentazione italiana del libro – qui non vogliamo soffermarci.
RISCATTO PER LE VITTIME – Una considerazione che non si può fare a meno di riprendere, invece, è la riflessione che Kamel Daoud, attraverso “Il caso Mersault”, invita a fare: in generale, non solo nel romanzo di Camus né solo quando è nera, araba, omossessuale…, la vittima tende a passare in secondo piano agli occhi del mondo, più interessato a condannare o assolvere il suo carnefice. Pensiamoci: a chi prestano più attenzione media e opinione pubblica, quindi noi? Ad Alberto Stasi o a Chiara Poggi? A Rudy Guede, Raffaele Sollecito e Amanda Knox o a Meredith Kercher? Chi furono le vittime del Mostro del Circeo o del Mostro di Milwaukee? A ben guardare, anche questo libro parla più di Mersault e Haroun che non di Moussa.
LE RELIGIONI “TRUCCANO IL PESO DEL MONDO” – Altro argomento con cui il romanzo obbliga a fare i conti è la religione, non solo quella islamica ma qualunque tipo di credo. La prima riflessione che “Il caso Mersault” ci suggerisce è banale, ma altrettanto trascurata: per dissertare di una religione bisogna prima conoscerla, aver letto i testi sacri cui fa riferimento, conoscerne i riti, aver frequentato i suoi fedeli. Fermandoci a ciò che conosciamo bene, possiamo serenamente affermare che l’Occidente pullula non solo di “cristiani” che conoscono la Bibbia meno di un ateo, ma anche di esperti di Corano che questo libro sacro non l’hanno neanche mai tenuto in mano. Tutti bravi a citarne l’esortazione alla Guerra santa (dimentichi che l’Antico Testamento parla, ad esempio, di Dio degli eserciti) o ad accusarlo di dipingere la donna come un essere inferiore e tentatore (fingendo che sulle nostre società non abbia avuto alcuna conseguenza il fatto che la Genesi racconti di Eva, prima Donna creata dalla costola di Adamo, primo Uomo, e prima a cedere al Peccato mortale, in cui ha trascinato il suo compagno). Però, davvero raro è che questi pseudo-esperti di islamismo citino il versetto del Corano che – unico – lascia un segno anche nel non credente – o almeno non praticante – Haroun: “Se uccidi una sola anima è come se uccidessi l’umanità intera”. Un versetto che, probabilmente, instilla nel narratore la consapevolezza che «Uccidendo perdiamo la misura dell’Altro».
Riguardo alla religione Kamel Daoud fa esprimere al suo personaggio considerazioni molto forti e poco rileva se le condivida o meno. Oltre al passaggio citato dallo stesso autore a Mantova («Per me la religione è un mezzo pubblico di trasporto che non prendo mai. Se proprio è il caso, mi piace andare verso questo Dio a piedi, ma non in viaggio organizzato»), scuotono non poco affermazioni come questa: «Che senso ha correre dietro a un padre che non ha mai messo piede sulla terra e non ha mai dovuto conoscere la fame o la fatica di guadagnarsi da vivere?». O ancora: «Mi azzardo a dirti che detesto le religioni. Tutte! Perché truccano il peso del mondo».
Tuttavia, come Mersault, anche Haroun sente il bisogno di confrontarsi con qualcosa di più grande di lui e sembra che non possa fare a meno di credere comunque in un Dio: «Ci vuole qualcosa di infinito, di immenso, credo, per bilanciare la nostra condizione di uomini». Ci crede, dunque, ma ha con questo Essere superiore un rapporto conflittuale, critico: «Mio Dio come ti piace prendere in giro le tue creature…» commenta, idealmente facendo eco ad André Gide ne “I falsari” e, potremmo dire, anche a Giuseppe Medile, con la sua provocante idea de “I giocattoli di Dio”. Non è, però, solo Dio a essere in torto, come appare chiaro quando il narratore rammenta ciò che spesso ci sfugge: «[…] Dio è una domanda, non una risposta […]».
L’AMORE, QUEL “PAUROSO ANIMALE CELESTE” – Anche dell’amore Haroun ha un’idea anticonvenzionale. Con molta probabilità, questa concezione non appartiene all’autore ma, come le considerazioni sulla religione, è sicuramente uno stimolo a vagliare criticamente le proprie convinzioni. Afferma Haroun: «In verità l’amore è come un pauroso animale celeste. Lo vedo divorare le persone a due a due, sedurle con il miraggio dell’eternità, rinchiuderle in una specie di bozzolo e poi aspirarle verso il cielo e gettare a terra la carcassa come fosse un involucro. Lo vedi che fine fanno le persone quando si separano?» E ancora ribadisce la sua natura ambigua e ambivalente: «Non saprei descriverti le forze che si impadroniscono del corpo quando nasce l’amore. Le mie parole sono vaghe e imprecise. È un millepiedi miope che striscia sulla schiena di qualcosa di immenso».
IL POTERE DELLA LINGUA – La lingua, la sua potenza, è una questione che sta a cuore anche a Kamel Daoud (che, ricordiamo, pur essendo algerino, ha scritto questo romanzo in francese). È apparso chiaro già al Festival della letteratura di Mantova quanto lui creda nell’importanza di conoscere – meglio ancora di padroneggiare – più lingue e alcuni passaggi di questo romanzo ne sono testimonianza, come quando scrive che «Una lingua si beve e si parla, e un bel giorno ti possiede; allora comincia ad afferrare le cose al posto tuo, ti prende la bocca come una coppia in un bacio appassionato».
La lingua, però, è uno strumento e come tale può portare in direzioni diverse secondo l’intenzione, ad esempio a esprimere non curanza o, peggio, a sottomettere e disprezzare: «Il colono amplia da secoli la propria fortuna dando nomi a ciò di cui si appropria e togliendoli a ciò che lo ostacola». E le parole – ribadiscono queste pagine – possono contribuire a mistificare la realtà: «Arabo, io non mi ci sono mai sentito, sai. È come la negritudine, che esiste solo nello sguardo del Bianco. Nel quartiere, nel nostro mondo, eravamo musulmani, avevamo un nome, un volto e delle abitudini».
“C’È SEMPRE UN ALTRO” – Chiudiamo il cerchio tornando al punto di inizio, ossia a “Lo Straniero” di Camus e a Mersault. Essi negano dignità alla vittima, Moussa, eppure, «Lui è l’altro protagonista», afferma Haroun, come abbiamo ricordato. Ed ecco l’ultimo tema chiave su cui anche noi vogliamo soffermarci: l’Altro, con il quale non possiamo sfuggire il confronto perché «C’è sempre un altro, caro mio. Nell’amore, nell’amicizia, o anche su un treno, un altro, seduto di fronte a te e che ti fissa, o ti dà le spalle e valuta le prospettive della tua solitudine».