La discesa di Toni Valeruz dalla parete nordest del Gran Sasso
Riceviamo e pubblichiamo:
QUELLA MATTINA DI QUEL MESE D’APRILE CON TONI VALERUZ SULLA
PARETE NORD-EST DEL GRAN SASSO D’ITALIA
Al mio amico Toni
L’AQUILA – Sono molto stanco a seguito di una lunga giornata d’impegni. Torno a casa verso sera: quando il silenzio diffonde in ogni angolo di questo piccolo borgo montano posto nel cuore del leggendario Appennino Abruzzese. Chissà perché il sopraggiungere della fine del giorno porta la mia mente ad una intensa riflessione: ad una approfondita ricerca di come un uomo debba giustamente vivere la propria vita non solo per se stesso, nell’egoismo, ma anche in aiuto degli altri. Laggiù, in lontananza, vedo trasparire tra lo scintillio degli ultimi bagliori rossastri del tramonto l’immagine, inconfondibile, della cuspide rocciosa del Gran Sasso. Quella montagna da sempre vicina alle genti d’Abruzzo, e che spesse volte di essa ho avvertito il richiamo, ancora una volta sarà protagonista di un ennesimo e storico incontro. E’ proprio essa con la sua solitudine a tenere, assieme a tante vette alpine, in segreto il mio passato: le tante sensazioni che ogni uomo di montagna prova alla fine di ogni ascensione, l’eco delle mie parole tra le sue rocce verticali.
Ciò che sto dicendo può essere di facile comprensione per ogni uomo che della montagna fa una delle tante ragioni di vita. Per colui che, spesso e volentieri, con un sacco a pelo sulle spalle, sotto un cielo terso di stelle, adagia il suo corpo tra le rocce ghiacciate delle alte montagne. Là dove il sibilo del vento è la misura stessa del silenzio: in attesa dell’alba e continuare il suo cammino ed appagare il suo desiderio di vita.
Mi trovavo a sciare in Trentino: in val di Fassa. Era una giornata di freddo e bufera sulle piste del Ciampac. Per vivere, nella maniera più vera, l’effetto di quelle ore in cui la montagna si presentava con il suo aspetto invernale: io e Toni decidemmo di portarci verso la sommità di quell’anfiteatro incastonato tra le vette Fassane cancellato dalle gelide nebbie. Soli scendevamo da sella Brunec spinti dalle folate di un vento forte misto a neve: tali da cancellare la visuale di ogni direzione. In un attimo di sosta il mio amico oltre a darmi a capire, con parole, la sua soddisfazione nel godere l’effetto di quella tormenta, mi confidò il suo desiderio di scendere con gli sci, appena le giornate diventavano più lunghe, la parete più alta del Gran Sasso: quella di nord–est. Aggiunse poi: “Ora che torni a casa aspetto da te le informazioni riguardanti le condizioni dello strato nevoso di quel versante di montagna”. Scendemmo in basso verso la sua vecchia baita trasformata, da qualche tempo, in un punto di ristoro e di incontro per alpinisti. C’erano ad aspettarci dei nostri amici con i quali mangiammo insieme raccontando il nostro passato trascorso sulle vette alpine.
Toni Valeruz e il Gran Sasso, lo storico incontro. Quell’uomo venuto dai monti: figlio della Marmolada. Quel mio amico da tempi lontani, con un paio di sci sulle spalle, vuole salire sulla vetta più alta dell’Appennino e poi scivolare a valle tra i vari pericoli delle nevi primaverili. Pur conoscendo Toni non nascondo il mio stato di leggera tensione durante la notte. Mi viene voglia di invocare il Gran Sasso affinché sia buono: affinché l’incontro tra i due avvenga in maniera amichevole. Non sono ancora convinto se definirlo un incontro oppure una sfida. Ed è quest’ultima idea che infonde in me un senso di preoccupazione pensando a cose strane. Domani mattina sarò il solo compagno di Toni nel salire la vetta ed assistere all’atteso incontro tra i due amici: il grande gigante e il piccolo uomo. Dopo cena prepariamo gli zaini, le corde, gli sci e tutto il necessario per andare su di una montagna ancora imprigionata tra i ghiacci della fredda stagione. Travaso del the freddo nelle borracce. Preparo qualcosa da mangiare: quando tutto è al suo posto andiamo a dormire. Abbiamo deciso di partire assai presto nella mattina seguente. La nostra speranza è’ quella di trovare ancora una neve dura e non molle in modo da ridurre le difficoltà nel portarci su in alto.
Alle tre e mezzo suona la sveglia. Balzo rapidamente dal letto e mi precipito in cucina cercando di approntare una semplice colazione con caffè, cioccolato e frutta. Ecco che arriva Toni con passi leggeri: timoroso di svegliare qualcuno dei miei famigliari. Finita la colazione e caricato sulla macchina tutto il necessario approntato per l’ascesa in fretta ci avviamo per raggiungere, al più presto, la base di quella parete.
A quell’ora percorrendo l’autostrada ci accorgiamo di essere gli unici girovaghi della notte. La città dell’Aquila e il piccolo centro abitato di San Nicola, posizionato nel punto della nostra partenza, dormono ancora un sonno profondo. Si inizia a salire in direzione del Vallone delle Cornacchie accompagnati, per un tratto, dal continuo latrare di un cane e dal mormorio delle acque del torrente dirette, con continui balzi, verso il mare Adriatico. Ad un tratto, nella semioscurità dell’alba, notiamo a poca distanza l’aprirsi, per breve tempo, di una piccola finestra di luce. E’ forse qualcuno che, ancora assonnato, e’ rimasto sorpreso dal nostro passaggio.
Come primo ostacolo troviamo un grande nevaio. Dal ghiacciaio del Calderone esso si estende fino a lambire il circondario del piccolo borgo appenninico. Sopra di noi sovrasta, tra i primi chiarori di luce del nuovo mattino, l’enorme montagna coperta di neve. In uno dei suoi ripidi canaloni scenderà tra poche ore Toni. Spesso lui si ferma: fissa gli occhi verso l’alto intento a guardare e a valutare i pericoli, le difficoltà che dovrà superare nella lunga ed impegnativa discesa. Nell’attimo di una sosta sfioro con lo guardo il suo volto. E’ scurito dal freddo, come il mio, e dallo sforzo fisico per superare gli scoscesi passaggi con neve a volte ghiacciata e a volte molle da sprofondarci dentro. Una continua brezza risalente dal sottostante paesaggio, ancora ingiallito dall’inverno ed appena liberatosi dalle ombre della notte, s’aggira tra gli spazi coperti di neve; dominati dall’immensità di un cielo nitido tale da sembrare trasparente. Nel fondo della valle le prime luci del sole, spuntato dal lontano orizzonte, illuminano i dossi erbosi ed i filari di olivi delle colline teramane. Parte di esse sono ancora oscurate dalle umide nebbie risalenti dai lidi deserti della vicina marina.
Ad un tratto sento la voce di Toni. Girandosi verso di me, mi dice: “Vedi Angelo, questi sono i momenti assai significativi per ogni alpinista, intento a ricercare tra le sconfinate alture delle rocce qualcosa di diverso dal normale”. Capivo il significato di quelle parole. Conoscendolo bene sapevo cosa avesse nella mente in quell’attimo. Era nella sua casa: tra le braccia di una delle tante montagne da lui conosciute.
Forse il suo unico desiderio di pensare in quell’istante era rivolto a quella parete che, nell’eterno silenzio della sua immobilità, sembrava in attesa di vederlo e di conoscerlo. Immaginavo, pure, come la sua mente corresse verso luoghi lontani oltre l’Appennino Centrale. Verso le vette Himalayane: o sulle sconfinate distese della Patagonia a lui note. Là dove il Cerro Torre è posto come confine tra le terre steppose e la spinta delle forze dovute a quei venti oceanici. In quegli aridi luoghi dove, oltre all’intenso freddo, esiste il continuo fenomeno della deflazione generata dal clima rigoroso che determina lo sfaldamento delle rocce. Quei soffi simili a bore, violenti ed umidi, con la loro persistenza modellano, giornalmente, l’estesa Cordigliera Argentina, coprendola con spessi manti di neve e ghiaccio. Nell’inferno di quelle terre lontane, anche Toni fu sorpreso da un improvviso cambiamento del tempo. Da solo e da qualche giorno avanzava per avvicinarsi alla base di quei campanili granitici. Per di più si trovava nel mezzo dell’esteso e pericoloso ghiacciaio. Era partito dall’Italia con un suo programma di salite su quelle montagne. Dopo varie ore di sofferta attesa al riparo di un giaciglio, scavato nel ghiaccio, si rese conto dell’impossibilita’ di procedere in avanti. Sarebbe andato verso il peggio. Quindi decise, pur non volendo, di tornare indietro. Ben presto con il primo volo di aereo da Buenos Aires prese la direzione verso l’Italia facendo ritorno tra le sue Dolomiti, la sua val di Fassa.
Saliamo ancora avendo sulle spalle lo zaino sempre più greve. Ci portiamo verso la sommità del massiccio: verso il punto dove dobbiamo separarci e dove ha inizio la sua lunga discesa. Anche se quassù sono stato tante volte non ho voglia di lasciare l’amico. Poi, dovrò farlo salutandoci. Adesso sono solo in un ambiente ancora invernale. L’unica compagnia mi viene data dalla voce di quella brezza, ancora fredda, proveniente dai Balcani e che si infrange tra i dirupi del corno piccolo. Anche se porto la piccozza, la corda e i ramponi fissati agli scarponi ed altro, l’esperienza di montagna mi insegna di prestare molta attenzione durante la discesa. Ogni piccolo sbaglio potrebbe compromettere il mio ritorno. Cerco di scendere giù al punto di partenza seguendo una via diversa da quella di salita evitando, in parte, le tante difficoltà incontrate precedentemente.
Passo in vicinanza del rifugio Franchetti ancora sommerso dalla neve. Una volpe, a poca distanza, sorpresa, mi guarda brevemente. Poi, si dilegua in fretta attraverso lo strato nevoso con la superficie indurita, cosparsa di cristalli di neve, rumorosa al mio passaggio. Sono passate le undici quando torno giù a valle. Toni ha già iniziato da tempo la sua discesa trovandosi oltre la metà della parete. Questa è l’ora in cui la montagna, svegliatasi dal lungo sonno invernale, diventa assai pericolosa a causa del primo caldo dell’ inizio del mese di aprile. Evidenzia i suoi rischi dovuti alle frane di calcare indebolito dal ghiaccio dei mesi passati; alle slavine generate dalle nevi diventate poco aderenti. Qualche attimo dopo di avere individuato Toni nel mezzo di quello strapiombo: a poca distanza da lui noto ed ascolto il boato del precipitare di una massa di sassi. Toni si ferma. Poi, con maggiore attenzione, continua la sua avanzata verso il basso. Attrezza con le corde l’ultimo passaggio portandosi, definitivamente, fuori da ogni pericolo.
A breve lo vedo apparire su quel piccolo sentiero da noi percorso la mattina. Viene subito circondato dalle poche persone di quel piccolo paese. Con calma si avvicina verso di me. Nonostante il vociare e le interviste dei vari cronisti televisivi mi dice: “Come sai, Angelo, quello che qui vediamo, attualmente, conta ben poco. Il vero significato di questa faticosa giornata è solo dentro noi due: e’ andata anche questa volta”. Poi, estraniandosi da tutto, si allontana di poco. Fissa lo sguardo verso l’alto in direzione della grande montagna: rimane in silenzio per qualche minuto. Sembra che ad essa voglia dire qualcosa, o che da essa ascoltare qualcosa. Si gira verso di me dicendomi ancora: “Quello di oggi è un altro traguardo da tempo aspettato, in una montagna da me conosciuta e anche di tanti ricordi”. Ero stato vicino ad un amico nel salire su quella interminabile parete. Ad una persona dalle poche parole con la quale avevo condiviso lo sforzo fisico per portarci su quella vetta. Ero stato vicino ad una persona che con la sua ultima azione continuava a segnare nel tempo la sua storia: unica ed incancellabile. La Storia di un uomo dal grande coraggio: quella di Toni Valeruz campione, indiscusso, dello sci estremo.
Nel tardo pomeriggio torniamo verso casa guardando, ancora una volta, il tracciato della sua discesa eseguita nel fianco, ormai ombreggiato, del massiccio roccioso. Come se nulla fosse successo sembrava che il Gran Sasso, in silenzio, ci guardasse salutandoci. Forse, ancora una volta incompreso, continuava a stare vicino alla sua gente riprendendo il suo solito modo d’esistenza verso l’eternità. Portava con se il nostro ricordo. Continuava a guardare verso l’infinito: verso est, tra le nebbie di vapore sperdute. Verso quel solito mare d’Abruzzo che con le luci di ogni alba lo aveva svegliato ogni mattina: liberandolo dalle tenebre e dal freddo della notte. Quel mare che gli era stato sempre vicino e con il quale, nel suo modo segreto e sconosciuto a tutti, continuava a dialogare; alla stessa maniera di un inseparabile compagno nel lungo percorso degli anni del tanto tempo passato.
Angelo Fusari
Settembre 2014
Bellissimo racconto di un’esperienza vissuta in pienezza di vita. Un testo etereo,scritto in quella prosa poetica che si fa tramite di emozioni perché “è solo dentro di noi” che si conservano e si creano sentimenti e ricordi. Il Gran Sasso, montagna a me assai cara come quella città che sovrasta, L’Aquila me! Un gigante, il Gran Sasso, che dialoga con “quel mare che gli è stato sempre vicino e continua nel suo modo segreto a dialogare”. La montagna, la maestà della natura; il mare, la potenza della natura; l’una roccia impervia e scoscesa dal forte richiamo , l’altro enigma di immensità sperduta. Una dualità che in me si fa molecola di vita. E poi la Val di Fassa, il Ciampac, la Marmolada… adesso solo nel ricordo, un tempo menta di escursioni fino al cielo.
Un grazie ad Angelo Fusari per questo voler condividere bellezza.
Un saluto, Lucia
Marmolada
Il bianco e l’azzurro
si fondono
in un abbraccio
immortale.
un frammento lirico che scrissi di getto, seduta su un sasso a ridosso del rifugio dopo una bella scarpinata verso il ghiacciaio. Ricordi