La “Giornata del Donatore”: una giornata particolare
Riceviamo e pubblichiamo:
La “Giornata del Donatore” non è una giornata qualsiasi per un trapiantato, è sicuramente una giornata particolare, quella in cui ti fermi a riflettere sul grande ” miracolo ” che è un trapianto, ma soprattutto sul fatto che se sei ancora vivo, lo devi a Qualcuno.
Lo devi a Qualcuno che sicuramente non conosci e che la legge ti impedisce di conoscere, che è stato chiamato in un momento drammatico, quando un proprio congiunto stava spirando nel letto di una Rianimazione, con un respiratore attaccato, a dire sì o no alla donazione dei suoi organi. Quando, magari, tre ore prima era in casa e stava facendo colazione con tutta la famiglia.
Certo, è stata una scelta drammatica perché a vederlo così fermo nel letto dell’ospedale, a sentire il suo cuore battere, a vedere il suo petto che sembra respirare, non sembra proprio morto, magari sembra sospeso e magari si riprenderà. No, purtroppo no, la morte encefalica, quella dalla quale non si torna più indietro, è arrivata. Con essa la vita terrena finisce e magari ne comincia un’altra, in un luogo che non sappiamo, che non conosciamo, dal quale mai nessuno è tornato, un luogo che solo la fede in un Dio ci porta a credere.
La tua famiglia ha detto sì, ha detto: “Salvate altri uomini, altre donne. Fate che il sacrificio di questo nostro caro, sia reso meno vano. Con un trapianto restituite la vita a chi ne ha bisogno, fatelo ricominciare a vivere, sarà come far rivivere un po’ anche lui dentro queste persone che chiedono aiuto”.
Oggi noi trapiantati, quelli aiutati da voi, favoriti dalle vostre scelte, siamo qui per ringraziarvi, per dirvi che, se anche non ci conoscete, noi ci siamo, vi siamo vicini, siamo molto ma molto vicini al vostro caro che vi ha lasciato prematuramente, è parte di noi e la nostra vita ormai lo include in tutto, nel bene o nel male.
Certo, è difficile trovare le parole per ringraziarvi, ma per noi il trapianto è come rinascere una seconda volta, ognuno di noi conosce la data in cui è nato dalla madre, ma ogni trapiantato conosce anche la data in cui è rinato a nuova vita con il trapianto.
Molti trapiantati erano quasi arrivati al capolinea della loro vita, già intravedevano la fermata finale, quella in cui i mezzi rientrano al deposito perché la corsa è finita. Anche per me era così, massimo sei mesi e poi tutto sarebbe finito, avrei lasciato questa terra, la mia famiglia, i miei parenti. Tutti gli amici e conoscenti avrebbero detto: “È stato colpito da un gravissimo male, non ce l’ha fatta”.
E, invece, durante la malattia, ti eri preoccupato di trovate il modo di poter guarire, avevi fatto decine di analisi, di visite mediche, di controlli clinici e poi un signore continentale con il camice bianco, sulla cinquantina, con pochi cappelli e dallo sguardo tagliente, ti ha detto che l’unica possibilità era il trapianto, che era un intervento difficilissimo e che potevi non uscire vivo dalla sala operatoria. E al tuo “Perché, ho altre possibilità?” ha risposto freddamente e con durezza: “No, nessun’altra possibilità, la può salvare solo un trapianto”.
E così sei finito in una Lista, il tuo nome è stato scritto nella Lista della tua salvezza, della tua possibilità di continuare a vivere, se un Dono, un grande Dono fosse arrivato per te. Molte volte, a posteriori, ho pensato all’analogia con Schindler’s List, a quanti uomini e donne furono salvati, in quei tragici momenti, da morte certa perché i loro nomi erano stati scritti in quella Lista.
E poi, caro amico, un giorno, quasi per caso, all’improvviso Mi hai scelto.
Quando, purtroppo, quel giorno, in quel lettino di Rianimazione, hai perso la tua personale battaglia per la vita ed hai lasciato questa terra, proprio quel giorno una macchina elettronica in un altro ospedale, ha detto che io ero quello che ti assomigliavo di più. Loro, quelli con i camici bianchi, usavano un altro termine più professionale, dicevano “più compatibile”.
Sì, caro amico, senza aver fatto niente per meritarti, tra quelli della “Lista” io ero quello che più si avvicinava a te, ero quello che potevo accoglierti meglio dentro di me e tu eri quello che mi avresti potuto tirare su, prendermi per mano e farmi ricominciare a vivere, facendomi abbandonare in una sala operatoria quell’organo malato, gravemente compromesso e ormai inutile.
La telefonata dall’ospedale, quella vocina serena che ti invitava ad andare “Venga, c’è un Dono per lei”. La paura che non fosse il momento giusto, la paura di non uscire vivo dall’intervento, la solitudine di quella stanza con le ore che non passavano mai, nudo come un verme, coperto solo da un leggero telo verde di tessuto non tessuto. È lì che fai i conti con te stesso, con la tua vita.
Un momento tremendo, che non ti dà tregua, con i pensieri che galoppano più veloci di cavalli in un prato, ma in fondo ti appigli con tutte le tue forze al fatto che tantissimi ce l’hanno fatta e che, quindi, anche tu potrai superare l’intervento e guarire.
Quando poi, dopo tante ore, a notte fonda vedi il viso tranquillo degli infermieri che ti accompagnano in sala e ti incoraggiano, cominci a essere più sereno. All’improvviso, però, c’è un momento in cui la paura torna, anzi diventa terrore: è il momento in cui ti sollevano dalla barella dove ti hanno trasportato e di peso ti fanno attraversare un varco con una finestra orizzontale mobile. Sei nel corridoio della sala operatoria.
Sei in una grande sala illuminata a giorno da una grandissima lampada tonda che sovrasta il letto della sala operatoria. Sei circondato da tante persone con camici di diversi colori e tutti con le mascherine sul viso. Solo uno lo riconosci: è l’anestesista che ti aveva visitato qualche giorno prima. Poi, dopo una piccola iniezione al braccio, le voci si allontanano, si allontanano, poi nulla.
Dopo tempo, non sai quanto, ti svegli in un luogo che non conosci, sei attaccato a tanti macchinari, ti tocchi e senti tubi di plastica attaccati al tuo corpo e sulla pancia un dolore, un dolore non troppo forte, ma c’è e si sente. E poi una sete, un’arsura in gola.
Piano piano ti svegli per bene, capisci dove sei e, dopo un po’, capisci che ce l’hai fatta, sei uscito vivo dalla sala operatoria, hai ricominciato a vivere e ora si stanno prendendo cura di te.
Sono passati diversi anni da quando sono uscito da quella sala di terapia semi-intensiva, ma sono momenti che non potrò mai dimenticare, come mai potrò dimenticare il giorno che ho chiesto all’infermiere di poter alzarmi dal letto per farmi la barba, troppo lunga, ormai di cinque giorni.
È stato il primo segnale che la vita era tornata e che un’altra persona era dentro di me e mi spingeva a ricominciare a vivere, sì, caro amico, ormai eravamo una sola cosa e questo ci avrebbe permesso di continuare una vita migliore della precedente. Era la mia seconda possibilità.
In questa “Giornata del Donatore” che abbiamo voluto come trapiantati e come associazioni per ricordare e ringraziare coloro che ci hanno permesso di ricominciare a vivere, ho voluto anche ricordare brevemente l’odissea del trapianto, che non è una cosa semplice, ma è un passo che bisogna obbligatoriamente fare se si vuole prolungare la nostra vita.
Qualche giorno fa, mia figlia mi ha chiesto di accompagnare al parco mio nipotino di quatto anni, cosa che ho fatto ben volentieri e così, tra corse e giochi, abbiamo passato alcune ore in questo parco bellissimo alle porte di Cagliari. Poi, all’improvviso, mentre mio nipotino correva per andare su un’altalena, ho notato che in questo grande spazio verde c’era un grande silenzio, ogni tanto interrotto dal vociare dei bambini. Mi è sembrato di essere in pace con la natura che mi circondava e da lì il pensiero “Sono un uomo fortunato, sono ancora qui su questa terra a godermi questo spettacolo che è la vita, e lo devo a una persona che con il suo Dono mi ha permesso di esserci ancora”.
Per questo vorremmo che il Parco – quello di Terramaini, ora lo posso dire – fosse dedicato ai donatori di organi e diventasse un luogo dove i familiari dei donatori e i trapiantati possano andare a ricordare una persona cara che ci ha lasciato ma che ha fatto un Dono importante. Noi vorremmo che fosse messa una lapide o un piccolo monumento in una zona del Parco che li ricordi tutti. E che non si avesse di loro un ricordo triste, ma un ricordo bello, di persone che hanno permesso ad altri di vivere, così come si vede dalla vita che scorre nel Parco. Questa è la proposta che facciamo al Sindaco di Cagliari per la sua Amministrazione, certi di un suo accoglimento, sapendo anche della sensibilità mostrata per la registrazione dei cittadini all’anagrafe comunale come potenziali donatori.
E poi vorremmo anche che la “Giornata regionale del Donatore” non fosse più organizzata dalle associazioni di volontariato del settore, ma dalla Regione per dare il valore sociale che merita alla donazione degli organi.
Già nel 2013 l’Assessorato regionale alla Sanità aveva accolto di buon grado la proposta: noi non faremmo altro che riformularla ex novo al nuovo Assessore, sperando che essa sia finalmente istituita. E abbiamo definito anche il 24 febbraio come data della giornata perché in quella data precipitò nei monti di Sinnai l’aereo che trasportava tre medici e tre tra piloti e tecnici che avevano prelevato un cuore dalla penisola perché fosse trapiantato ad un sardo.
Giuseppe Argiolas
Presidente Prometeo AITF Onlus