La medialità spudorata oltre la morte: nella trappola psicologica dell’illecita diffusione della notorietà
di Francesco Augello *
La complessità della società moderna, del post virtualismo e del post iperrealismo mediatico ci ha imbrigliati, a vantaggio o meno, dentro le maglie di un medium che sempre più appare aleatoriamente free, privo di un necessario quanto cogente controllo. Tuttavia la società mediatica, quella dei social, del web pubblicitario, nel caso in esame, appare del tutto anestetizzata di fronte alla mole messaggi e pubblicità non più regolati, né sottoposti ad un controllo ex post, da parte di chi, polizia postale in primis,
specialisti dei reati telematici, dovrebbe ritenersi chiamato in causa de jure, senza la necessaria denuncia formale di un cittadino o di diretti interessati, leso con uno o più reati telematici. Con ciò non si vuole, di
fatto, evidenziare la non operatività totale o un abbassamento della guardia delle “forze dell’ordine telematico” impegnate su più fronti, come la violazione della privacy, l’abuso sui minori attraverso pratiche di adescamento multi diversificate sul Web anche con l’uso di tecniche miste che fanno leva su pratiche di social engineering; le stesse pratiche impiegate dagli adulti e sugli adulti per compiere frodi più svariate, ma adattate, attraverso lo studio del comportamento umano, agli scopi più immorali e indebiti, sempre a uso e consumo di chi, giovanissimi e adulti, sempre più distanti dall’avere controllo di una tecnologia “appiccicata addosso” e per ignoranza, si vanta di averne il pieno controllo. Ciò per il
semplice fatto di saper utilizzare un App di messaggistica o di saper inoltrare una PEC o, ancora, di riuscire ad accedere ai servizi pubblici per mezzo dello SPID. Nessuno sembra stupirsi più di nulla! Triste, ma indiscutibile realtà. Nessun interrogativo su questo o quell’altro servizio o annuncio, sulla sua liceità o quanto vi sia di fondato. Tutto appare sempre più autentico, è spesso anche un vero affare! Il tutto appare ancor più evidente quando le informazioni vengono veicolate ad arte, unendo, come sempre
più frequentemente accade, una parte del messaggio rigorosamente scientifico e veritiero con alcune parti di contenuti, testi o immagini, che pur non essendo prevalenti, fanno breccia sulla psiche umana, svolgendo il ruolo di “vettori di credibilità” inducendo l’individuo, il cyber lettore per intenderci, a ritenere integralmente valido l’intero messaggio. Può accadere, e sempre più accade, che contenuti grafici, immagini e volti di persone acquisiti per mezzo di servizi a pagamento e non, anch’essi privi di attento controllo, per la fruizione di immagini coperte da copyright, vengano acquistate o direttamente impiegate, anche in buona fede, dentro testi o articoli senza consapevolezza alcuna di indurre in inganno il lettore su un prodotto o un servizio reclamizzato. Altre volte, invece, si ricorre in modo del tutto ingannevole e consapevole, con la ricerca di immagini di volti noti della TV, dello spettacolo, ma anche della scienza, per sponsorizzare l’ultimo ritrovato elisir della giovinezza o rimedio naturale o chimico per risolvere inestetismi o problemi di salute più seri e imbarazzanti, magari facendo leva, spulciando le statistiche, sulle preoccupazioni di natura psicofisica o fisica che maggiormente affliggono uomini e donne di mezza età o più, ma anche giovanissime/i.
Negli ultimi anni sono stati diffusi, a mezzo di canali social, Facebook in prevalenza, ma anche nei siti che impiegano opportuni redirector, ovvero porzioni di codici in metalinguaggio, script o linguaggio di programmazione web detti dirottatori di navigazione, che deviano, giustappunto, l’ignaro cyber lettore su pagine web realizzate ad arte, atte a rintracciare, attraverso la memorizzazione di contenuti precedentemente navigati, le preferenze dell’utente medesimo. La tecnologia alla base di cookie e sessioni web, modalità differenti per memorizzare informazioni tra le pagine web visitate, rese sempre più
complesse dai linguaggi web più evoluti, vengono oggi sfruttati anche per invogliare all’e-commerce indotto o, semplicemente ad uno shop mirato su un articolo singolo. È il caso delle sempre più frequenti vetrine di singoli prodotti farmaceutici che appaiono e svaniscono, dietro un countdown strategico atto a condizionare la psiche, e che farebbero leva su innovative ricerche quasi sempre sostenute da giovani volti della medicina o da luminari acclarati; nulla di strano in tutto ciò se non fosse che spesso a
dare lustro e decoro a tali vetrine siano personaggi e/o familiari degli stessi del tutto ignari di detta sponsorizzazione. A tal riguardo, giova ricordare cosa prevede la normativa italiana quando l’immagine di una persona viene impiegata senza il proprio consenso e, nello specifico, quando il volto appartiene a persona defunta. Sì, proprio così! La risposta non è del tutto scontata, ciò a discapito di una opinione comune cristallizzata sempre più dall’imperativo della privacy con cui in questi anni ogni persona ha imparato a confrontarsi o, semplicemente, ne ha acquisito il significato in senso più o meno ampio e
rigoroso. Il diritto allo sfruttamento dell’immagine cede il passo all’eredità come tutti gli altri diritti patrimoniali del de cuius. In breve, a disporne sono gli eredi o meglio solo alcuni eredi. Un argomento attentamente disciplinato dagli articoli 96, ultimo comma, e 93 della legge del diritto d’autore. Sulla base di una lettura precisa di tali norme, l’immagine della persona defunta non può essere pubblicata senza il consenso del coniuge e dei figli o, in mancanza dei figli, degli stessi genitori. Qualora mancassero il coniuge, i figli e i genitori, è necessario il consenso dei fratelli e delle 3 sorelle. Per ultimo, qualora mancassero anche le sorelle, sarebbe necessario il consenso degli ascendenti in linea retta (nonni) e discendenti diretti (nipoti). Quanto sopra parrebbe rassicurarci sull’eventuale abuso di foto
sempre più impiegate senza il consenso alcuno dei diretti interessati. Ancor più se si pensa che, ai sensi dell’articolo 10 del codice civile, qualora venisse pubblicata la foto di una persona deceduta senza
aver prima ottenuto il consenso del coniuge e dei figli o, in loro mancanza, delle categorie dei parenti ivi elencate è sempre possibile fare ricorso al giudice, ciò affinché imponga la cessazione dell’abuso e, sussistendo i presupposti di un danno morale, imponga altresì al responsabile il versamento di un risarcimento agli eredi. Pur tuttavia sembrerebbe che l’esistenza di tali norme a tutela dell’immagine propria o altrui, non costituisca un deterrente all’azione di abuso, prova ne è che non di rado
appaiono sulla scena del Web ritrovati miracolosi di cure farmacologiche che esortano ad uno shop a tempo, con un countdown che ne esalta la promozione, inducendo psicologicamente l’ignaro a leggere per intero l’articolo e a cadere nella tentazione di un acquisto da realizzare il prima possibile, assolvendo in tal modo ad una psicologia dei bisogni di cui ben consapevole appare il proponente dell’offerta lampo. Del resto non c’è prodotto posto on line la cui azienda non tenga in considerazione degli impulsi d’acquisto di chi ne legge la descrizione.
Cosa ancora più ignobile è il farsi poi propaganda, consapevolmente o meno, con il volto di un luminare della scienza medica o di un nome comunque altisonante d’oltre continente. È il caso dell’immagine del Dr. Walter Watson, medico che ad Augusta, in Georgia, già nel 2010 continuava ad esercitare la sua professione nonostante avesse compiuto l’età di 100 anni. Un curriculum e una storia affascinante
quella che potrà essere letta su molti siti che riportano integralmente la notizia. E probabilmente al Dr. Watson potrebbe ancora fare piacere sapere che la propria immagine risulta notoriamente diffusa nel Web, un po’ meno sapere che si tratti di una speculazione commerciale a favore di un ritrovato farmaceutico contro la prostatite, un farmaco, il prostatricum, che assicurerebbe di pulire “[…] completamente la prostata, il sistema urogenitale e i reni dai batteri, i processi di necrosi”, garantendo altresì un ritrovato desiderio sessuale e, tra gli altri innumerevoli benefici, l’eliminazione del rischio di sviluppare il cancro. Eppure l’illustre nome del Dr. Watson, di fronte ad una “ricerca così nobile” è stato rimpiazzato con quello di un certo Giovanni Micalessin, prestatosi ad interviste da parte di un non ben chiaro corrispondente che sottopone mirate domande circa la bontà di tale ritrovato farmaceutico e il cui studio sarebbe merito di una giovane dottoressa italiana: Giulia Galdino. Sua sarebbe l’idea che
“[…] consente di ripulire le piccole arterie prostatiche dall’anidride carbonica riuscendo in questa maniera a rimuovere la causa principale della prostatite e dell’adenoma”.
Ma chi è questa brillante dottoressa? Giulia, nome di fantasia, quanto il suo cognome, senza dubbio avrebbe potuto avere il potenziale per essere, sì, una brava, brillante, dottoressa in carriera, ma perché mai, si dirà a questo punto il lettore, scrivere di lei come se ciò non possa più essere? In realtà l’interrogativo è duplice ed investe non soltanto la morale e l’etica professionale, ammesso che di morale e di etica si possa ancora parlare, ma anche un comportamento che integra il delitto di sostituzione
di persona e, eventualmente, il reato di illecito trattamento di dati personali. Tale rischio, oggi, rappresenta una realtà consolidata all’interno di diversi profili social anch’essi, spesso realizzato con foto altrui e che, potenzialmente, comportano un risarcimento dei danni nei confronti della persona lesa che ha subito un pregiudizio dall’indebito uso della sua identità digitale. Il caso descritto, tuttavia, non può configurarsi alla pari stregua di quanto fin qui chiarito e ciò apparrà ancor più evidente facendo
riferimento ad un principio giuridico che sancisce il non necessario ottenimento del consenso degli eredi quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto,
da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltosi in pubblico. Ma sempre che non
ricorra uno scopo di lucro. Infatti secondo il disposto art. 97 della legge sul diritto d’autore, “Non occorre il consenso della persona ritratta quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico”. Appare ovvio che sarebbe pertanto un illecito pubblicare l’immagine di un noto medico defunto solo per attuare la réclame di un prodotto e quant’anche si tratti di persona nota o per scopi scientifici. Avendo chiarito, anche sul piano normativo, l’illiceità di fondo del meccanismo di shopping on line, tendenzialmente sorretto da una manipolazione di nome e di immagine, dobbiamo risolvere l’aspetto morale e etico al contempo, giacché la giovane dottoressa, la fantomatica Giulia, altro non è che la promettente studentessa ventisettenne di pediatria, Lorena Quaranta, originaria di Favara, paese poco distante da Agrigento, vittima di femminicidio, per mano del suo compagno, nella notte fra il 30 e il 31 marzo in provincia di Messina, a Furci Siculo. Sua la foto che la ritrae in camice bianco, utilizzata dalla healthyproshop.com, dominio 1)riservato attestato su server godaddy.com e sottoposto alla giurisdizione
dello stato dell’Arizona (US). Va rilevato che l’ubicazione volontaria su server esteri spesso ne limita l’azione legale, poiché l’intero contenuto è sottoposto più che alla normativa italiana del diritto d’autore a quello del semplice copyright d’oltre oceano, riguardando quest’ultimo il diritto esclusivo di copia riservato all’autore (o all’editore a cui i diritti siano stati ceduti).
E così, casi come quelli della già neo dottoressa Lorena Quaranta e del Dr. Walter Watson viaggiano indisturbati nella intricata maglia del virtuale, ignari poi, quasi certamente, familiari o molti conoscenti;
Spesso, a ciò si aggiunge chi tende a mettere in atto inconsciamente, nel necessario processo di disintossicazione da una bulimia di quotidiane immagine pubblicitarie e da talkshow televisivi, la rimozione di volti e nomi che finiscono per apparire usurpati e distanti dai legittimi titolari di
diritto, caduti presto o tardi nel limbo della rete. E così, mentre altrove si discute sulla liceità circa l’utilizzo delle foto tratte dai profili social di donne e adolescenti vittime di femminicidio, per raccontarne la loro storia, in altri luoghi della rete, viaggiano indisturbate foto delle stesse vittime non per raccontarne la verità dei fatti che di per sé sarebbe semplicemente la narrazione, giustappunto dell’indiscutibile, del vero, questione a parte l’eventuale romanzato, ma per confezionare un’ abile menzogna
pubblicitaria e calpestare la dignità della persona deceduta, ma la quale dignità, tuttavia, non cessa con la morte della defunta, quant’anche venga tutelata, in apparenza e ad arte, da una ricerca scientifica a fin di bene. Dunque cosa fare? Nel caso della foto di Lorena Quaranta, questione che si allarga potenzialmente a macchia d’olio alle altre vittime di femminicidio, ove l’immagine e il profilo della vittima, desti particolare interesse per quanti intendano farne impiego a fin di lucro, senza che con ciò si voglia collocare in secondo piano la foto del Dr. Walter Watson, anch’essa meritevole di parallela argomentazione, la questione di uno sconsiderato utilizzo e diffusione della foto, nasce prioritariamente dal possesso di una identità digitale, spesso, come su Facebook, cessata ed etichettata come “memorialized”, ovvero, “profilo commemorativo” della persona morta. A ciò si aggiunga che spesso l’eredità, nel reale pensare collettivo, non sfiora mai, nell’immediato, la questione di una identità
digitale da cancellare post-mortem, tranne che il de cuius, non abbia per tempo affidato tale volontà ad un legacy contact, dunque, fuori dall’ambito dei social, semplicemente un erede. Ragion per cui molti account di persone note e meno note, rimangono immodificati per anni fino ad una eventuale estinzione, mentre le loro immagini sfruttate in una sorta di bildwissenschaft, per ridare loro corpo nella nostra mente e, facendo leva sulle debolezze di una cultura sempre più visuale, donando loro valore immorale. In fondo siamo dentro la logica applicazione di quelle conoscenze e pratiche neuroscientifiche su cui si fonda buona parte del marketing d’ultima istanza, il neuromarketing, con lo scopo premere sui
processi inconsapevoli che avvengono nella psiche del consumatore e che influiscono sulle decisioni di un acquisto o sul coinvolgimento emotivo nei confronti di un brand o di un singolo prodotto per quanto non noto. Fortunatamente in Italia la legislazione prevede una tutela che va ben oltre al regolamento europeo sulla tutela dei dati personali, ossia l’estensione di detta tutela anche post mortem, garantendo a eredi e congiunti di esercitare, oltre l’accesso al profilo social, il diritto all’oblio dei dati che riguardano la persona deceduta. Il più delle volte, come nel caso del profilo Facebook di Lorena Quaranta i dati permangono
nonostante si sia intervenuti sulle impostazioni sulla privacy, il quale determina solamente la mancanza di indicizzazione da parte dei motori di ricerca, ma non impedisce di effettuare un accesso diretto al profilo
recuperando informazioni, foto e molto più. I ricordi, si sa, quando di una persona cessa tutto, oggi pretendono di occupare e di impossessarsi di un posto oltre la mente, così la rete, i diversi profili delle app social, è divenuta sede privilegiata e strumento d’estensione per eccellenza anche per chi ha intrapreso un cammino di pace, ma così realizzando, legittimità di affetti e ricordi a parte, il rischio è
pur sempre quello di esporre chi non c’è più ad un “cammino” altro, ad una “vita digitale oltre la morte”, ma men che di pace e men che gloriosa. Il tutto confezionato dentro una esistenza, per chi r-esiste, fatta da un rumore di fondo dei social e da una perenne connessione a scapito di una sempre più fragile attenzione e concentrazione sui contenuti sempre più fake, allontanandoci da un “minimalismo digitale” che per la mente è sempre più necessario.
*Docente di scienze umane, pedagogista e consulente per comunità e scuole di ogni
ordine e grado nell’ambito della realizzazione di percorsi educativi individualizzati e
specialistici – studioso di psicologia della personalità, consulente e orientatore per
aziende di servizi nell’area ICT e consulente forense per i reati informatici c/o il
Tribunale di Agrigento e per gli studi legali.
1)URL: https://healthyproshop.com/it/prelanding/prostatricum_student_v2/?utm_term=4999b
17a2bzbg3y5f7&utm_campaign=Prostatricum%20July%202&utm_medium=Nativer
y&utm_content= [consultato il 11.11.2022
BIBLIOGRAFIA
[1] F. De Stefani, Le regole della privacy. Guida pratica al nuovo GDPR,
Hoepli 2008
[2] A. D’Arminio Monforte, La successione nel patrimonio digitale, Pacini
Giuridica, Pisa, 2019
[3] R. de Souza Marques Craveiro, Il diritto all’onore post mortem e la sua tutela:
Un’analisi storica e pratica, Ed. Sapienza, Modena, 2020
[4] R. Cialdini, Le armi della persuasione. Come e perché si finisce col dire di sì.
Giunti Psychometrics; Enlarged edizione, Firenze, 2022
[5] C. Newport, Minimalismo digitale. Rimettere a fuoco la propria vita in un
mondo pieno di distrazioni, ROI Edizioni, Milano, 2019
[6] G. Ziccardi, Il libro digitale dei morti: Memoria, lutto, eternità e oblio
nell’era dei social network, UTET, Palermo, 2017
[7] URL: https://www.facebook.com/lorena.quaranta.3 (Consultato il 09.11.2022)
[8] A. Novaga, Pugni negli occhi o carezze? La fotografia nella comunic
Articolo originale, unico che fa riflettere molto sulla tematica. Complimenti, come sempre, al dott. Francesco Augello. Con l’occasione auguro a tutti un meraviglioso 2023. Buon anno.
Da avvocato, sono rimasto piacevolmente sorpreso da questa tematica e di cui poco o nulla si discute.
È pur vero che bisogna essere parecchio dentro la tematica tanto teorica che tecnica poiché, come ho potuto notare, se ne comprende la fluida dimestichezza nel rendere accessibile elementi di non facile lettura e comprensione.
Complimenti per l’ottimo contributo.
Cosa dire, un articolo che mi ha lasciato profondamente interdetto, passatomi da un collega per tenermi in qualche modo incollato alla sedia, perché mi ha incuriosito sin da subito con la sola lettura del titolo.
Sebbene il collega al suo messaggio mi avesse detto: “Ciao Mirco, dovresti leggere questo articolo è perché potresti trarne spunto per le tue lezioni ai ragazzi”.
Ho fatto fatica a seguire il tutto, non perché poco chiaro, anzi davvero esaustivo e molto scorrevole, ma è una tematica molto complessa e articolata e solo chi ha certa dimestichezza potrebbe essere poi capace di rispondere a chissà quali e quante domande andrei ad innescare nei ragazzi. No grazie, non ci provo nemmeno, ma posso solo complimentarmi con l’autore perché a mio avviso ha scoperto il vaso di pandora.
Complimenti
Davvero interessante e parecchio esaustivo.. Da avvocato mi pregio averla conosciuta e saperla un ottimo professionista che sa fornire contributi sempre ricercati e mai banali.
La polizia cosa fa? No si accorge di queste cose? Lasciano che gli abusi passino sempre in sordina.
molte grazie ha confermato i miei dubbi, ogni volta che trovo prodotti magici…..faccio una ricerca sui medici che la propongono, variano spesso e non si trova riscontro in merito, mille grazie