La partecipazione dei cittadini: appunti dal Forum PA Sardegna
di Marcella Onnis
Il 28 e il 29 aprile 2016 si è svolto a Cagliari Forum PA Sardegna, manifestazione in cui si è discusso di come la Pubblica amministrazione (PA) possa, nell’Isola, applicare innovazione, sviluppo sostenibile, trasparenza e integrità per garantire ai cittadini una maggiore qualità della vita. Una delle sessioni pomeridiane di giovedì 28 ha riguardato, in particolare, l’Agenda digitale della Sardegna e ha offerto al pubblico una ricca serie di interventi coordinati dall’ing. Riccardo Porcu, Direttore del Servizio comunicazione istituzionale, trasparenza e coordinamento rete Urp e archivi della Regione autonoma della Sardegna.
A.A.A. CITTADINI PARTECIPANTI CERCASI – La strada maestra per migliorare la PA e, di conseguenza, la vita dei cittadini è senza dubbio quella della partecipazione, concetto tanto bello quanto abusato e bistrattato. A ribadirlo sono stati più relatori, a partire da Stefano Sotgiu dell’associazione Civica: «Partecipazione è un termine ambiguo: tutti ne parlano, ma pochi sanno veramente di cosa si tratta» ha esordito. Tuttavia, se ne parla tanto perché la classe dirigente ha compreso che le politiche di partecipazione sono necessarie. Innanzitutto, perché c’è bisogno di una nuova legittimazione, ha spiegato Sotgiu, rimarcando che questo problema non riguarda solo l’Italia ma tutta l’Europa: la partecipazione, infatti, rafforza le decisioni prese. Non solo: come ha evidenziato il relatore, questo metodo decisionale favorisce la formazione, perché consente un confronto tra soggetti informati. Oggi si parla di partecipazione 3.0 che si caratterizza – ha chiarito – per il fatto di combinare l’approccio in presenza con quello on line e di definire i diritti e i doveri del cittadino “partecipante”. Infatti, «l’obiettivo è passare dalla partecipazione alla deliberazione» la quale, ha precisato Sotgiu, è cosa diversa dall’atto amministrativo omonimo: secondo la definizione degli anglosassoni, è «il processo dialogico tra parti che porta a una decisione»; quest’ultima può, quindi, anche non essere emanata da un organo eletto. Per arrivare a questo risultato, però, Sotgiu ha spiegato che occorre organizzare dei laboratori deliberativi di confronto, finalizzati a redigere un documento condiviso da indirizzare all’autorità competente. Questa, poi, a sua volta, dovrà deliberare tenendo conto di quel parere e motivando l’eventuale scelta che se ne discosti. Con l’avvertenza che non sempre è opportuno ricorrere ai laboratori deliberativi e che occorre valutare la scelta in base al tema, l’esperto ha illustrato i vantaggi di questo processo decisionale: tempi più rapidi per l’adozione delle policy o riforme; un minor conflitto; una migliore qualità delle decisioni, in quanto frutto del confronto tra più punti di vista… Tali laboratori, inoltre, costituiscono una «attuazione del diritto ad essere ascoltati».
Per tali ragioni, ha annunciato Sotgiu, la Regione Sardegna intende adottare questo metodo decisionale per la nuova legge urbanistica e per la riforma dell’assistenza sanitaria territoriale. In particolare, la Regione consulterà dei “mini-pubblici” attraverso un ambiente on line denominato Sardegna Delibera. Altri strumenti di e-democracy già operativi sono stati illustrati da Viviana Maxia del Servizio comunicazione istituzionale della Regione Sardegna. Il primo è Sardegna ParteciPA, piattaforma lanciata a giugno 2015 per aprire una consultazione pubblica sul progetto Iscola e che oggi include altri 10 tavoli partecipativi. Nelle intenzioni della Regione, questa piattaforma dovrebbe far sì che «i cittadini sviluppino una coscienza di democrazia partecipativa, deliberativa». La creazione della piattaforma, finanziata con fondi comunitari e prevista sia dal Programma regionale di sviluppo (PRS) che dall’Agenda digitale Sardegna, si accompagna all’attivazione degli Sportelli ParteciPA, partiti in via sperimentale e in un’ottica di decentramento presso la sede regionale di Sassari. Si tratta di strutture multitasking con compiti di informazione ma «soprattutto di coinvolgimento e attrazione dei cittadini» attraverso incontri, workshop e altri eventi incentrati sull’attività della Regione.
NIENTE DEMOCRAZIA SENZA PARTECIPAZIONE – Di partecipazione e con uno sguardo più critico hanno parlato anche Antonietta Mazzette e Camillo Tidore, rispettivamente professore ordinario e associato di Sociologia urbana all’Università degli studi di Sassari. Per la prima, «parlare in Italia di democrazia deliberativa o partecipativa è abbastanza difficile. Innanzitutto, perché le democrazie in Europa stanno scricchiolando» ha affermato citando quanto sta accadendo in Austria; in secondo luogo, per delle «specificità italiane». Per la prof.ssa Mazzette, diversamente che per Sotgiu, non c’è differenza tra democrazia deliberativa e democrazia partecipativa, perché «la democrazia dovrebbe sempre avere il compito, la possibilità, di incidere sulle scelte decisionali». In Italia, però, «non troviamo un ambito dove il cittadino ha potere decisionale». Per questo considera il progetto Sardegna ParteciPA «un segno positivo che va incoraggiato e promosso», soprattutto considerate «alcune difficoltà, che non sono tecniche», anche perché queste ultime «sono facilmente superabili». A suo parere, le difficoltà maggiori riguardano tre aspetti: fiducia, responsabilità e pubblico. La fiducia, ha precisato, «ha a che fare con la credibilità di chi governa», ma «non è mai unidirezionale» perché «anche chi governa non ha fiducia in chi è governato» e guarda alla partecipazione come a «un ingombro, un rallentamento». Un’idea che deriva pure dalla convinzione che i cittadini non siano sufficientemente esperti nelle materie in cui dovrebbero essere consultati. Per questo, ha affermato, sono predilette le decisioni calate dall’alto e per questo, se si vuole imboccare la strada della partecipazione, occorre innanzitutto lavorare sull’informazione, ossia rendere più informati e consapevoli i cittadini. Anche Tidore è tra quelli che credono che una buona democrazia richieda una buona partecipazione. Rifacendosi ad altri studiosi, ha fatto propria la metafora del puzzle per indicare la democrazia come una «cooperazione o collaborazione regolata», in cui i vari punti di vista si uniscono per formare una decisione che armonizza le diverse componenti in un unico quadro di insieme. E, qui, ha affermato, «la comunicazione è utile per argomentare la propria prospettiva, assumere la propria responsabilità». Questo puzzle, però, «non rende tutti uguali, anche perché nel processo partecipativo non serve riprodurre lo schema rappresentativo». Stefano Sotgiu ha ribattuto, in proposito, di non vedere una contrapposizione tra democrazia partecipata e democrazia rappresentativa, aggiungendo che, a suo parere, il nodo è stabilire come le decisioni maturate con metodo partecipativo possano tradursi in atti amministrativi. Un passaggio in cui – ha affermato – hanno un ruolo cruciale i facilitatori. Figure che oggi «si stanno dotando di codici deontologici e di standard di lavoro», perché «purtroppo, chiunque oggi può diventare facilitatore», senza magari essere consapevole del delicato ruolo che sta svolgendo. Alla luce di questo scenario, dunque, si sta lavorando sulla formazione dei facilitatori e sull’adozione di carte della qualità per la partecipazione. La prof.ssa Mazzette, tuttavia, ha ammonito sul rischio di un’eccessiva formalizzazione di questo tipo di processi perché, a suo parere, ciò potrebbe causarne la “morte”.
SOCIAL PA E “SOCIAL” PA – Anche i social media sono uno strumento che favorisce la partecipazione, seppur difficilmente con funzione deliberativa. Del loro utilizzo nella PA ha parlato Alessandro Lovari, docente di Strategie di comunicazione pubblica all’Università di Sassari. Il suo intervento ha analizzato in maniera critica i vantaggi offerti da questi strumenti e gli errori che occorre evitare quando li si utilizza, anche alla luce delle esperienze maturate in Italia dal 2008 (anno in cui le prime amministrazioni, tra cui il Comune di Torino, si dotarono di profili social) a oggi. Tra i vantaggi, per Lovari, rientra la possibilità di utilizzare i social media non solo per la comunicazione istituzionale ma anche per altre aree strategiche, quali la trasparenza e l’accountability, la gestione delle emergenze e, ovviamente, la partecipazione. Inoltre, poiché sono il mezzo più usato dai cosiddetti millennials, ossia i giovani tra i 18 e i 30 anni, sono lo strumento ideale per raggiungere questa tipologia di utenti. Ancora: consentono di risparmiare costi e quindi rispondono alle esigenze della spending review; sono usati dai mass media tradizionali come fonte per la creazione di notizie; consentono di attivare nuovi percorsi di comunicazione, di tipo relazionale e conversazionale, ossia non più calati dall’alto (modalità top-down). L’esperienza italiana, però, ha già evidenziato alcune aree critiche, puntualmente analizzate dal relatore:
– non esiste un obbligo normativo di adottarli e ciò costituisce «una grande barriera al loro utilizzo», soprattutto, ha affermato Lovari, dove c’è scarsa volontà di introdurre i social media o, addirittura, se ne teme la loro adozione. Questo perché, come ha giustamente rilevato, c’è anche un «problema di demonizzazione dei social media» che va a braccetto con una «forte resistenza al cambiamento da parte dei burocrati»;
– l’istituzionalizzazione è ancora limitata, ossia in Italia siamo ancora in una fase che ha definito di «sperimentazione intraprendente», in cui, cioè, lo strumento è stato adottato per iniziativa di singoli dipendenti, senza che vi sia stata una pianificazione da parte della PA di appartenenza;
– il loro utilizzo si è sviluppato in modo discontinuo e a macchia di leopardo. Quanto alla Sardegna, ha affermato, è «abbastanza avanti dal punto di vista quantitativo, ma dal punto di vista qualitativo c’è ancora molto da fare»;
– i social media sono usati soprattutto per promuovere l’immagine dell’Ente;
– deve essere ancora risolto il problema del digital divide e delle competenze digitali dei cittadini (e, potremmo aggiungere, anche dei dipendenti pubblici);
– siamo ancora molto indietro per quanto riguarda l’individuazione dei soggetti che devono gestirli e dei modi con cui gestirli, ossia occorre una formazione specifica per i comunicatori pubblici. Una formazione che, ha aggiunto in seguito, non deve riguardare tanto le capacità tecnologiche quanto, piuttosto, il senso etico e la sensibilità relazionale. Solo così la PA potrà riuscire a essere davvero social. In particolare, per evitare di essere semplicemente “social” deve, innanzitutto, imparare «ad ascoltare i cittadini e a canalizzare i feedback». Lovari ha battuto molto sul fatto che «la PA deve parlare con i cittadini, deve rispondere», anche perché la mancata risposta fa sì che il cittadino non utilizzi più quel mezzo di contatto. Altro errore da evitare è la sovrapposizione tra comunicazione politica e comunicazione pubblica istituzionale: i profili social devono comunicare in nome dell’Ente, non del partito politico di cui è espressione il suo organo di vertice. Tra i consigli migliori e che più colgono nel segno, inoltre, l’ammonimento a non creare false aspettative perché deluderle significa cadere nella «retorica dell’innovazione tecnologica».
Migliorare, comunque, è possibile e opportuno perché consentirebbe di raggiungere alcuni importanti risultati tra i quali Lovari ha indicato la promozione dell’Agenda digitale (obiettivo che include rendere consapevoli i cittadini di ciò in cui consiste e dei suoi obiettivi); fare da volano per l’attivazione di percorsi consapevoli di e-governement; dare vita a una forma di social innovation e citizen sourcing; consentire ai cittadini di acquisire ed esercitare competenze digitali; dotarsi di un mezzo strategico per diventare una PA agile e inclusiva.
ESEMPI DI SCUOLA “PARTECIPATA” – La partecipazione si rivela fruttuosa anche in un ramo particolare della Pubblica amministrazione: la scuola, come emerso dagli interventi di Simone Ferrari e Alessandra Patti, rispettivamente coordinatore e socia di Sardegna 2050, associazione che si definisce «think and action tank». I due relatori hanno illustrato, in particolare, due progetti di simulazione di impresa realizzati nelle scuole da Sardegna 2050. Di Biz World ha parlato Alessandra Patti, spiegando che riguarda le classi terze delle scuole secondarie di I grado e che è stato sperimentato per la prima volta in una scuola di Sestu. Gli alunni vengono divisi in gruppi, ognuno incaricato di creare un’azienda virtuale. In 13-15 ore devono, quindi, sviluppare competenze concrete in ambito imprenditoriale ed economico, utilizzando materiale redatto esclusivamente in lingua inglese e muovendosi in maniera autonoma rispetto ai docenti, al contempo lavorando in team tra di loro. Tale esperienza, ha spiegato la relatrice, consente ai ragazzi anche di apprendere l’etica del lavoro perché le aziende devono sì entrare in concorrenza tra loro, ma devono farlo in maniera leale. L’altro progetto – definito da Simone Ferrari una sorta di versione 2.0 di Biz World – è stato utilizzato per attuare il progetto nazionale alternanza scuola-lavoro e si chiama Impresa in azione. Destinato alle classi terze, quarte e quinte delle scuole secondarie di II grado, prevede che gli studenti creino la loro azienda virtuale avendo a disposizione 60-80 ore nell’arco di un anno scolastico. Chi volesse verificare la capacità dei ragazzi sardi di portare a termine questo compito potrà assistere il 25 maggio 2016 alla competizione finale di Impresa in azione, che si svolgerà presso la Mediateca del Mediterraneo (MEM) di Cagliari. La Sardegna, però, non si ferma qui: Ferrari ha annunciato che l’Isola è tra la prime regioni a sperimentare una versione semplificata del progetto, destinata alle scuole secondarie di I grado.