La persecuzione dei cristiani nel mondo e l’ambiguità silenziosa dell’Occidente
Anche mentre scrivo mi arriva un messaggio: prete cattolico ucciso in Zanzibar e, poco dopo, leggo su Repubblica: sette lavoratori di varia nazionalità rapiti in Nigeria ; contestualmente, in calce allo stesso giornale on line, l’appello accorato del Papa che con umiltà e coraggio ci lascia: Non strumentalizzare Dio per il potere.
Lo stillicidio dei cristiani nel mondo non è mai concluso. E non si ferma.
I totalitarismi o la furia islamica e induista, ovunque, non conoscono tregua.
Una ininterrotta catena di nomi, di volti, di luoghi … presbiteri, vescovi, gente comune colpevole solo di professare un diverso credo o di non averne nessuno.
Intere comunità di uomini, donne, bambini massacrati e le loro chiese distrutte, sovente
insieme ai loro presbiteri, durante le liturgie significative dell’anno.
E tutt’intorno la crescente protervia di un’intolleranza omicida, sovente tollerata dai poteri politici locali.
Chi non ricorda i sette monaci cistercensi sgozzati presso il monastero di Tibhirine in Algeria; i frequenti e sanguinosi attacchi armati alle comunità rurali cristiane da parte della setta islamica Boko Haram in Nigeria; la precaria situazione dei cristiani del nord Sudan che, a seguito dell’indipendenza dopo quarant’anni di guerra civile, sono rimasti da soli, praticamente ostaggio di incertezza e discriminazione sociale da parte della preponderanza islamica; oppure il recente arresto in Laos di tre pastori protestanti con l’accusa pretestuosa di diffusione della religione cristiana.
L’inarrestabile accerchiamento del fondamentalismo islamico nel paesi orientali è tale da mettere a rischio la sopravvivenza stessa di quanto resta del cristianesimo in queste aree.
Da una stima fatta per l’anno 2010 i paesi dove la persecuzione anticristiana si è rivelata particolarmente feroce sono stati: Corea del Nord dei cui sacerdoti esistenti si è persa traccia dal 1949 e i cristiani rimangono relegati nelle prigioni; Iran dove cristiani e minoranze religiose sono imprigionati senza processo in una crescente recrudescenza di odio; Afghanistan dove la conversione ad altra fede è punita con la morte e i cristiani rimasti vivono in clandestinità. Anche gli operatori sanitari vengono uccisi per vaccinazioni sospette all’ottica fondamentalista.
Arabia Saudita e Cina non sono da meno in materia di vessazioni contro i cristiani.
E le politiche occidentali?
Il Parlamento europeo con una risoluzione del 20 dicembre 2011, per evidente e crescente intolleranza verso i cristiani in numerose aree geografiche, ha ravvisato la necessità di concertare una strategia comune allo scopo di tutelare la libertà religiosa delle minoranze.
La sensazione, però, è che i fatti mettono a nudo il logorante e pericoloso immobilismo delle nostre politiche estere, non dissimile da quello che strangola la politica interna del nostro comatoso sistema democratico, dove un irenismo demagogico ed inerte è diventato moda.
Sulla scena internazionale, intanto, osserviamo fenomeni abbastanza curiosi.
Nel processo di negoziazione culturale globale, i paesi a maggioranza islamica, a torto o ragione, rivendicano un surplus di identità etnica e culturale come punto di forza e di coesione sociale, a fronte di una supposta anonimia laicizzante. Cioè: piedi ben saldi nella memoria storica (anche troppo …) e poi … tutto il resto.
Al di là di considerazioni possibili relative a presumibili incapacità strutturali di rinnovo teologico da parte di queste culture; al di là del persistente e penalizzante connubio fede-politica, un fatto emerge ed inquieta la tranquilla sufficienza occidentale. Ed è la constatazione evidente della paradossale e pericolosa defezione che l’occidente consuma, dalle sue radici identitarie storiche, culturali e religiose.
E questo non è un problema da poco. Significa, tra l’altro: perdita di orientamenti etici; squilibri ed incertezze nella comunità civile; fragilità e perdita di autorevolezza delle istituzioni; incapacità di progettare il futuro.
In altre parole, avendo dissipato il valore e l’originalità della nostra identità, ci è rimasta una confusa percezione di ciò che siamo e di ciò che rappresentiamo. Ed è fragile la consapevolezza di cosa e come difendere, rafforzare e rendere propositiva e comunicativa la nostra presenza tra le culture.
E rimaniamo sospesi ad individuare molto bene l’identità altrui ma lasciamo la nostra sbiadita e silenziosa.
Questo sì è il peggiore dei nostri mali. Questa sì può essere una strada di non ritorno.
E c’è un’altra considerazione.
Nel mondo globalizzato di cui siamo parte, nulla può rimanere circoscritto. Nemmeno l’intolleranza.
Quanto avviene altrove a danno dei cristiani, non sono solo fatti lontani che si consumano per ragioni che spesso non comprendiamo. Il fatto vero è che ciò che accade nel mondo, prima o poi diventa problema di casa. Meglio: problema in casa.
E le vie di rientro sono quotidianamente sotto i nostri occhi: migrazioni; crisi di apparati di sicurezza; politiche di sviluppo nazionali ed internazionali al palo.
Qui non si tratta più di una questione del futuro, demandato al lento processo educativo alla convivenza rispettosa delle diversità. Beninteso, il problema è anche questo. Ma non è solo questo.
E non si tratta nemmeno di reiterare scontri di religioni il cui solo timore ci blocca ed inquieta.
Ciò che diventa sempre più urgente ed indifferibile, invece, è una responsabile azione diplomatica che assuma il dovere di negoziare il reciproco riconoscimento dei diritti dei popoli alla propria cultura e religione. Di più. Di assumerlo come criterio e condizione obbligante per tutte le geografie di emigrazione.
Mi sorge inevitabile un pensiero ad Oriana Fallaci. Ai sui timori, sempre più realistici e condivisibili, di doverci ritrovare un giorno, come Europa, lentamente ed ignaviamente catapultati in qualcosa che possa rassomigliare ad Eurabia.
Ma c’è un altro aspetto del problema.
Contrariamente a quanto noi stessi vorremmo credere, la cultura militante dei diritti nella nostra società, soffre di miopie ed intermittenze inspiegabili. E noi cristiani facciamo fatica a maturare una sensibilità comunionale dal respiro effettivamente universale e partecipativo.
Solo marginalmente ricordiamo le chiese perseguitate nelle nostre parrocchie e confusamente gestiamo l’urgenza responsabile di proposizione e rispetto reciproci per la coesistenza delle fedi qui, in patria.
Abbiamo il dovere di creare e difendere regole e strategie che rendano la convivenza possibile ad ogni latitudine. Ovunque. Soprattutto per la generazione veniente.
I martiri sono sempre stato un seme fecondo. A noi la responsabilità e la coerenza di fare in modo che il loro sacrificio diventi impulso di nuova e diffusiva credibilità.
Emanuela Verderosa
Nella foto:Padre Evarist Mushi