La relazione medico-paziente nel trattamento della schizofrenia

Auspicabile il modello della cosiddetta “scelta informata” rispetto all’ormai (“superato”, anche se ancora molto attuato) modello paternalistico

Tra le più recenti iniziative convegnistiche promosse dalla Società Italiana di Psicopatologia, particolarmente interessante è stata quella dedicata al tema “Schizofrenia e Psicosi: Mente e Realtà”, tenutasi a Torino qualche tempo fa, ma tutt’ora attuale. Tra i molti interventi in programma ho inteso rilevare, per la sua “particolare essenzialità”, quello relativo al rapporto psichiatra-paziente e, più precisamente, come “Migliorare la relazione medico-paziente per migliorare l’esito a lungo termine dei pazienti affetti da schizofrenia”, trattato dalla prof.ssa Silvana Galderisi dell’Università di Napoli. Oggi assistiamo a un cambio di paradigma nel modo in cui viene concepita  la relazione medico-paziente. «I medici – ha esordito – non sono preparati per questo cambio di paradigma, ma oltre a loro anche gli studenti di medicina i quali manifestano una “resistenza” al cambio di paradigma e, spesso, utilizzano delle argomentazioni che ci dicono quanto ancora oggi nel mondo medico sia illuminante un modello di tipo paternalistico, in cui esiste un medico che sa che cosa fa…». Alla luce di questa realtà sia il medico che lo studente in Medicina si sentono come “deprivati” del ruolo nel momento in cui viene messo in discussione questo modello.

Entrando più dettagliatamente in merito al rapporto medico-paziente e quindi sull’esito del trattamento in pazienti affetti da schizofrenia, e sulle indicazioni degli aspetti terapeutici la relatrice ha ricordato che il modello paternalistico, ossia quello della “scelta condivisa”, è maggiormente preso in considerazione in quanto più in linea coi nostri tempi, mentre dal modello della cosiddetta “scelta informata” si è ancora lontani… Nel modello paternalistico il ruolo viene gestito dal medico che possiede tutte le informazioni, sceglie e prescrive tutte le terapie che ritiene opportune. «Il paziente – ha precisato la cattedratica – ha un ruolo passivo in quanto può soltanto accettare ed è “complicante” adattandosi alle decisioni del medico. Nel modello della scelta condivisa il medico mantiene un ruolo attivo, all’interno del quale deve condividere con il paziente tutte le informazioni di cui dispone, prospettare eventuali opzioni e i pro e i contro delle stesse e decidere con il paziente il trattamento più idoneo. Il paziente a sua volta ha un ruolo attivo, si forma una propria opinione, la discute con il medico ed eventualmente con altri interlocutori, decidendo con il clinico il proprio trattamento».

Nel modello della scelta informata il medico riveste il ruolo di consulente condividendo con il paziente tutte le informazioni ma non prende decisioni, mentre il paziente decide autonomamente. Il modello della scelta condivisa si inserisce all’interno di un continuum in cui il paziente può avere un atteggiamento variabile…; il medico a sua volta interviene all’interno di questi modelli informandolo delle possibilità terapeutiche. Tale modello comprende la maggior parte dei consensi, ma non ha una risposta univoca e lo applica in alcune condizioni piuttosto che in altre. «Si applica in presenza di malattie croniche – ha precisato –, condizioni che non possono escludere il paziente dagli aspetti decisionali in quanto lo coinvolge per un lungo periodo della sua vita. Il modello si applica meno nel caso di eventi acuti, ossia quando la competenza decisionale è significativamente compromessa e limitata, ed ha scarse conseguenze… Bisogna quindi tener presente la volontà e la capacità del terapeuta di includere il paziente nel processo decisionale, rispettando la volontà del paziente di partecipare alle scelte ricevendo le necessarie informazioni; per questo il medico deve conoscere i valori e le attitudini del paziente per potersi meglio relazionare con lui, e avere a disposizione i mezzi necessari per illustrare le opzioni disponibili».

Tutto questo si applica per l’intero scibile della Medicina. Gli psichiatri hanno problemi specifici ma quello che li accomuna ad altri medici sono i trattamenti a lungo termine, che nel loro settore sono la regola. «Spesso i pazienti – ha precisato la psichiatra – hanno la consapevolezza della malattia e riscontriamo la prevalenza di sintomi negativi in presenza dei quali i pazienti non vogliono partecipare, tant’è che a volte ci troviamo di fronte a situazioni che necessitano il trattamento sanitario obbligatorio (TSO). I pazienti affetti da schizofrenia sono interessati a partecipare alle scelte terapeutiche, in particolare i giovani, i pazienti che hanno avuto esperienze negative con i precedenti trattamenti e coloro che hanno una disposizione negativa di base verso i trattamenti psichiatrici. I medici tendono a considerare la necessità e l’utilità di un coinvolgimento attivo dei pazienti nella ricerca terapeutica, ma non nei pazienti affetti da schizofrenia soprattutto nelle fasi acute. Ma nonostante le limitazioni dell’applicazione di questo modello, forse ci attendiamo dei vantaggi dalla possibilità che questo modello trovi applicazione su più larga scala; quindi c’è da dedurre che la relazione medico-paziente è importante nel trattamento di pazienti con disturbi psichiatrici». In effetti la qualità della comunicazione medico-paziente è stata evidenziata in molti studi: i pazienti vengono informati e coinvolti nei processi decisionali e in questo caso è stato constatato che hanno una migliore aderenza alle prescrizioni e alle raccomandazioni del medico, ed effettuano un cambiamento nel proprio stile di vita a vantaggio della salute. Va anche precisato che nell’ambito della salute mentale la relazione terapeutica è un predittore indipendente nell’esito dei trattamenti: una buona relazione predice un buon esito a breve e a lungo termine e che uno “stile” di comunicazione improntato alla collaborazione sin dal primo incontro, può influenzare favorevolmente il livello di informazione dei pazienti per il prosieguo dei trattamenti.

Per quanto riguarda l’atteggiamento del medico la relatrice sostiene che vi sono clinici che non curano la relazione, e questo incide sulla possibilità di trovare un accordo con i loro pazienti; ed è così che il paziente avverte la scarsa empatia. L’apporto empatico non è necessariamente innato nel medico, ma è un atteggiamento che si può assumere riflettendo sulle proprie esperienze e capire quando le persone ci trattano con distacco e non ci coinvolgono nelle scelte. Questo autoesame è sicuramente un buon ausilio per aver più empatia nella relazione con il paziente. «Il medico che dà poche spiegazioni – ha precisato Galderisi – sicuramente crea delle problematicità nella concordanza con i pazienti come ad esempio fallow-up inadeguati e troppo distanti nel tempo. Nella relazione psichiatra-paziente è sovente la giovane età ad interferire in modo negativo, come pure la gravità dei sintomi in particolare quando sono molto marcati, la convinzione che i farmaci non aiutino, quando il servizio psico-sociale è carente, etc. Gli elementi che hanno invece un ruolo positivo sono l’incoraggiamento (sentirsi compresi), quando il paziente avverte una forte alleanza con il terapeuta, quando la totale comprensione dei rischi legati alla malattia e del difficile trattamento, quando sente intorno a sé credenze e attitudini positive».

Secondo gli esperti in questo ambito va sempre ricordato che il paziente vive all’interno di una famiglia o di una comunità, e l’attitudine dei membri della famiglia e altre figure significative possono influenzare l’attitudine del paziente, e il loro grado di coinvolgimento nella relazione terapeutica può facilitare i benefici. È importante che lo psichiatra abbia fiducia in sé stesso e sia convinto di quello che prescrive, e sia pronto ad una chiara discussione dei benefici e degli effetti collaterali del trattamento che prescrive. Lo psichiatra che non è in grado di cogliere le preoccupazioni dei pazienti, che ha fretta e non vuole ascoltare lavora male; come pure lo psichiatra  che dà risposte molto emotive (”aggressività”) interferisce negativamente con la relazione. In sostanza gli psichiatri devono essere capaci di migliorare l’interazione con i pazienti, riflettendo sui loro stili individuali di relazione, e questo va messo in discussione anche se non tutti sono d’accordo.

 

Ernesto Bodini

(giornalista scientifico)

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