La ricchezza naturalistica del territorio abruzzese
Noi abruzzesi forse non siamo abbastanza consapevoli di vivere in un territorio ricchissimo dal punto di vista naturale. La nostra terra che passa rapidamente da zone costiere a collinari e poi submontane e quindi montane, montagne alte, le più alte di tutto l’Appennino, e poi ricca di vallate e altipiani, possiede una complessità che la rende geomorfologicamente variegata, il che spiega come, ad esempio, nel settore botanico, essa possegga un numero di specie vegetali che supera le 3250 unità. Tenendo conto che in Italia le specie conosciute sono all’incirca 7700, possiamo comprendere quale varietà contraddistingua il nostro territorio. Inoltre si tratta di specie qualitativamente molto elevate.
Fra i tanti gruppi che costituiscono le famiglie floristiche ne proponiamo alcuni: la grande famiglia degli Equiseti, tipici per la forma sottile allungata dei rami, con foglie piccole, quella delle Aspleniacee, felci, alcune delle quali per gli antichi avevano proprietà medicamentose, la famiglia dei Salici, delle Persicanie, nome derivante dalla Persia, con foglie lanceolate-lineari, le Arenarie che prediligono i luoghi sabbiosi, la Saponaria con proprietà detergenti contenute nel rizoma, le Anemone (dal greco, vento) poiché le corolle dai larghi petali denotano la presenza del vento, i Ranuncoli, le Crocifere, le Violacee, le Centauree. Pochi nomi in un mare, una ricchezza incalcolabile.
La vegetazione della fascia costiera o di un entroterra poco elevato è quella a noi, nati in zone rivierasche, più nota. E sono piante in grado di adattarsi a periodi stagionali aridi. Il pensiero va alla macchia mediterranea con i suoi lecci, ginestre, cisti piccoli arbusti cespugliosi e sempreverdi, rosmarino, va agli olivi, viti, acacie, oleandri, alloro e arbusti come i ginepri; ai pini marittimi, agli eucalipti, oltre alla grande quantità di alberi da frutto fra cui i corbezzoli o albatri, sempreverdi. Fra i 500 e i 1000 metri di altitudine il paesaggio muta con il predominio di foreste caducifoglie come querce, carpini, ornielli; le caducifoglie proseguono tra i 1000 e i 2000 metri con foreste di faggeti, abeti, famiglie di aceri ecc… integrandosi nel salire con la flora più specifica alpina(il termine alpinoè usato in senso ecologico, non geografico) che oltre i 2000 metri domina incondizionatamente o quasi.
La zona montana è la più ricca e variegata in quanto vive più che altrove del concorso di fattori molteplici, orografici, climatici, geologici, biologici, antropici. Un insieme di fattori definiti ecologici. A varie quote poi esistono avvallamenti, strapiombi, valloni, dove l’umidità è forte e la vegetazione acquista una composizione tutta particolare. La Maiella in specie è ricca di valloni. Questa diversità determina non solamente un’alternanza di aree dalle differenti dimensioni strutturalmente armonizzanti, ma una cromia policroma che specie durante il periodo della fioritura e quello del foliage si presenta assai suggestiva. La varietà e ricchezza della vegetazione abruzzese, specie montana, ha determinato da sempre grande attenzione da parte di botanici e studiosi.
Riguardo ad essa Giovanni Galetti, un ingegnere bolognese, escursionista, che ha vissuto in Abruzzo 20 anni, dal 1984 al 2004, ha realizzato un libro sorprendente per immagini e non solo dal titolo Abruzzo in fiore (Menabò edizioni, Ortona 2008), nel quale analizza i fattori ecologici che negli ambienti dell’alta montagna influiscono sulla vita vegetale, riconducibili alle severità climatiche, che si estrinsecano con le basse temperature, ai valori elevati della radiazione solare e delle escursioni termiche e l’intensità dei venti. Fattori plurimi determinano quindi la crescita delle varie specie. Uno di essi è l’altitudine: sappiamo che tra il livello del mare e le cime più alte del Gran Sasso la differenza media della temperatura è di circa 19 gradi.
Quindi man mano che si sale si riduce il tempo vegetativo delle piante, che deve essere superiore a 0 gradi. Se a livello del mare il periodo vegetativo copre tutto l’arco dell’anno o quasi, in alta montagna poche piante riescono a superare un tempo così lungo; sopravvivono le piante perenni, cioè quelle che crescono molto lentamente e rimangono vitali per più anni. A quelle quote i processi fisici chimici e biologici che agiscono su sedimenti e materiali rocciosi (che hanno un ruolo nella formazione del suolo) sono rallentati sia per effetto del freddo intenso, sia per l’erosione del suolo che diventa particolarmente vistosa lungo i versanti molto scoscesi.
Diverse sono pertanto le strategie di adattamento (forme a cuscinetto, pubescenza, habitus succulento e altre formazioni) che, nel lunghissimo corso dei processi evolutivi, si sono evidenziate nelle specie alpine sotto la spinta della selezione naturale, trovando il loro habitat in questo rigido ambiente. Un esempio tipico è dato dalla Silene acaulis il cui cuscinetto aumenta di 10 cm ogni 20 anni, per cui se incontriamo una pianta del genere con 50 centimetri di diametro vuol dire che ha superato i 100 anni di vita. L’altitudine determina anche la stagionalità delle piante, cioè lo stesso tipo di pianta, per esempio la Doronicum columnae, fiorisce, in base all’altitudine, fra maggio e agosto. La stagionalità si evidenzia negli avvallamenti; modelli interessanti sono quelli situati sopra i 2000 metri in cui la neve si scioglie solo per un paio di mesi in estate.
Altro fattore è l’esposizione; è chiaro che il versante Sud delle montagne, più caldo, produce una più ricca vegetazione. Così come l’inclinazione del terreno e l’esposizione ai raggi solari giocano un ruolo determinante. Per esempio nelle zone più riparate prosperano le piante cosiddette termofile, cioè amiche del caldo, e questo accade anche ad alta quota, un esempio è dato dal Sedum rupestre; in ambienti riparati ma freschi predominano le mesofile pianteche esigono l’alternarsi regolare di acqua con periodi asciutti. Mentre a temperature molto basse troviamo le piante criofile, che amano il freddo, alcune delle quali prediligono le rocce scoscese e in ombra. Ma si tratta di eccezioni perché in genere le piante vogliono il sole diretto o indiretto come può essere un sottobosco o l’ingresso di una grotta.
Altri fattori determinanti sono le precipitazioni atmosferiche; esistono piante che vivono immerse nell’acqua, le idrofile, desiderose di acqua, come i ranuncoli, quelle che vivono in zone umide adiacenti ai corsi d’acqua. Invece le xerofile, amanti del clima secco,preferiscono contenere l’acqua nelle foglie e nei fusti e prediligono le zone aride. Il vento a sua volta gioca un ruolo importante perché, aumentando la traspirazione, prosciuga la pianta e aumenta l’esigenza di rifornimento idrico, per cui in zone ventose sopravvivono piante, non solo con radici profonde, ma con molta riserva d’acqua nei tessuti. Fra l’altro l’azione del vento assieme all’altitudine incide sull’altezza delle piante che divengono più alte man mano che ci si abbassa di quota. Il vento è anche basilare poiché rimuove il polline e non sono poche le piante che affidano ad esso l’impollinazione. L’elenco dei fattori è lungo, la composizione chimica dei terreni, i fattori legati alla presenza di altre piante (perché le piante competono fra loro alla ricerca di spazi), o alla presenza e azione degli animali e dell’uomo. E altro ancora.
La fauna è un’altra incalcolabile ricchezza determinata in sostanza dalla stesse condizioni geografiche; basti pensare alla superba Aquila reale, come reali sono il Gufo e il Corvo; e poi Camoscio, Lince, Picchio dorsobianco, Lupo, una infinità. Sarebbe un discorso troppo articolato. Voglio solo mettere l’accento, con vera sofferenza riguardo a ciò che ha in mente di realizzare la Regione Abruzzo con la decisione di abbattere circa 500 Cervi e cerbiatti, meravigliose creature innocue, a beneficio dei cacciatori, con la scusa che sono in eccesso. Sarebbe tanto semplice trasferire queste creature in altre realtà geografiche, riserve che le accolgono, ad esempio sulle Alpi e in altre regioni. Che cos’è questa mattanza, questa crudeltà a beneficio dei cacciatori i quali verrebbero perfino retribuiti per tanto scempio? La barbarie è sempre dietro l’angolo, assieme a decisioni opportunistiche. Ma la chiudo qui.
Questo patrimonio straordinario che avremmo il dovere di trasmettere integro alle generazioni future, va impoverendosi. Inquinamento atmosferico, disboscamenti (che concorrono alle frane e inondazioni), costruzioni selvagge, cementificazione di aree splendide, un insieme che mette in crisi l’intero ecosistema. In montagna zone sciistiche spesso tengono ben poco conto del paesaggio. La presenza dell’uomo è stata ed è spesso distruttiva. Un tempo l’essere umano viveva in armonia con la natura, oggi la prevarica. La scelta di creare Parchi naturali e Riserve diviene sempre più pressante, anche se, per dirla col Galetti, “si tratta comunque di una sconfitta della nostra civiltà costretta a tutelarsi da se stessa”. Il rispetto dell’ambiente va doverosamente insegnato ai fruitori degli ambienti naturali, affinché non accendano fuochi, non insozzino i terreni con i rifiuti (in primis la plastica), non distruggano fiori e piante senza alcun motivo.
Riguardo alla plastica il discorso si allargherebbe troppo e sconfinerebbe. L’analisi delle micro e nano plastiche ci porta alla conclusione che la plastica si scompone continuamente nell’ambiente e raggiunge dimensioni così microscopiche da essere trasportate nell’aria, ingerite. Ne sono state trovate tracce negli organi interni, nel sangue, provocando intossicazioni e anche disturbi del comportamento, della parola, del movimento. Ma il discorso è molto più ampio e inquietante, se si pensa che tracce sono state rinvenute anche nel liquido seminale, e si teme che anche il cervello possa esserne in qualche maniera coinvolto. Dunque meno plastica si lascia sparsa in giro, meno pericoli esistono non solo a livello igienico.
Proibire serve a poco, bisogna educare al rispetto dell’ambiente. È questa la sfida; e si vince attraverso la conoscenza diretta del problema, approfondendo lo studio delle caratteristiche storico-geografiche di un territorio, rendendosi conto dal vivo dello stato di precarietà in cui versano determinate aree geografiche. Credo che i giovani, le nuove generazioni, debbano vivere queste problematiche non in forma teorica, ma con esperienze dirette. Solo così si può prendere coscienza di situazioni che altrimenti sfuggono non solo alla conoscenza, ma anche all’emozione. E sappiamo che l’emozione è la vera forza trainante, in grado (si spera), di salvaguardare la splendida natura che fa dell’Abruzzo una terra felix.
*Presidente della Società Vastese di Storia Patria