La sicurezza nei trapianti dal lato del donatore

persone che assistono a un congresso

Donatore “standard” o marginale, deceduto o vivente, a cuore battente o a cuore fermo: ogni caso richiede un diverso approccio. E sempre presuppone un “sì” alla donazione. Con tali argomenti, proseguiamo il resoconto del 6° congresso della Società italiana per la sicurezza e la qualità dei trapianti.

di Marcella Onnis

Il concetto di sicurezza nei trapianti include la regola che ogni paziente riceva l’organo giusto. Ma, a ben guardare, pure che nessun organo utile a salvare una vita vada perduto. Anche questi temi, dunque, sono stati oggetto di discussione il 2 e 3 dicembre 2014 a Firenze, nell’ambito del sesto congresso nazionale della Società italiana per la sicurezza e la qualità dei trapianti (SISQT).

Franco Citterio mentre parla al microfonoIL DONATORE MARGINALE – Com’è facilmente intuibile, non è possibile trapiantare un determinato organo su un qualunque paziente e questo è ancora più vero nel caso del cosiddetto donatore marginale, ossia non ottimale. Questo tipo di donazione – ha spiegato Franco Citterio (responsabile dei trapianti di rene al policlinico “Gemelli” di Roma, nella foto) – è diventata ormai di routine in Italia, così come in Europa e negli Stati Uniti, in quanto sta aumentando la percentuale di donatori con più di 60-65 anni. Massimo Maccherini (direttore del Centro trapianti di cuore del Policlinico di Siena) ha precisato che questi donatori stanno diventando necessari, in particolare, per i trapianti di cuore perché gli organi sono assolutamente insufficienti.

Sempre lui ha illustrato le caratteristiche in base alle quali un donatore viene considerato marginale. Tra queste, l’età superiore a 65 anni, le dimensioni non ottimali dell’organo e la presenza di eventuali alterazioni anatomiche o di determinate patologie, quali quelle cardiovascolari.

Citterio, invece, ha evidenziato i problemi che questo tipo di donazione comporta:

–           un donatore o, meglio, un organo non ottimale offre risultati meno buoni (Alessandro Nanni Costa, direttore del Centro nazionale trapianti, ha parlato di performance inferiori del 10%). In particolare, è stata rilevata una minor durata della vita del trapiantato, che è più soggetto a infezioni (anche se, di contro, corre un minor rischio di rigetto). Sicuramente, quindi, si deve evitare di trapiantare organi di donatori anziani in pazienti giovani. E anche con i riceventi anziani bisogna essere cauti, perché spesso questi soffrono di altre patologie che possono ridurre le possibilità di sopravvivenza dopo l’intervento. Esistono, però, delle differenze di risultato relative al genere: stando ai dati illustrati da Maccherini, gli uomini che ricevono il cuore di una donna hanno maggiori possibilità di sopravvivenza. Per quanto riguarda i reni, comunque, la situazione è più incoraggiante: come ha rilevato Luigi Boschiero (responsabile del Centro trapianti di rene dell’Azienda ospedaliera universitaria di Verona), la funzione renale, pur calando con l’età, si mantiene buona anche sopra gli 80 anni, soprattutto nelle donne. Nel caso di rene proveniente da donatore anziano, dunque, la sopravvivenza a cinque anni dall’intervento ha percentuali simili a quella garantita da un donatore giovane (ossia non anagraficamente marginale);

–          il comportamento dei vari centri trapianti è vario perché dipende dalla loro esperienza (ossia dalla capacità di gestire queste situazioni complesse) e/o dalla loro strategia (ossia dall’eventuale volontà di offrire ai propri pazienti il miglior organo possibile). In proposito, Citterio ha fatto notare che, per quanto riguarda i trapianti di rene, negli Stati Uniti viene rifiutato il 50% degli organi marginali perché hanno molte donazioni, soprattutto da vivente. Queste ultime, invece, da noi devono ancora essere incentivate, come ha fatto notare Nanni Costa;

–          l’algoritmo di allocazione degli organi (il paziente da trapiantare viene, infatti, individuato da un sistema informatizzato) deve essere il più libero possibile per trovare il ricevente più idoneo e non correre il rischio di perdere degli organi utili a salvare delle vite;

Lorenzo D’Antonio mentre interviene a un congresso–          devono essere superate le barriere linguistiche e le diffidenze legate al concetto di “marginalità” che, ad oggi, limitano ancora l’effettivo utilizzo di organi con questa caratteristica. In particolare, sia Citterio sia Maccherini ritengono fondamentale prospettare nel modo giusto al paziente rischi e vantaggi. Il che significa, per esempio, proporre ai pazienti con problemi cardiaci terapie alternative al trapianto (come il VAD, dispositivo di assistenza ventricolare), che possono allungare la loro vita, eventualmente nell’attesa di un organo ottimale. O, ancora, spiegare a un nefropatico che, proseguendo con la dialisi, ha un 10% di probabilità di sopravvivere nei successivi cinque anni, mentre tale percentuale sale al 40% se accetta un trapianto con un organo marginale. Secondo Lorenzo D’Antonio (direttore del Centro regionale allocazione organi e tessuti della Toscana), comunque, l’attuale sistema della rete dei trapianti consentirà di dimostrare al paziente che l’idoneità dell’organo è stata valutata nel miglior modo possibile.

IL DONATORE A CUORE FERMO – Oltre all’istituzione del Centro nazionale trapianti operativo, Nanni Costa ha annoverato tra le più importanti innovazioni di quest’anno la donazione a cuore fermo avvenuta ai primi di novembre per un trapianto di polmone realizzato al Policlinico di Milano (ma il prelievo è avvenuto all’ospedale “San Gerardo” di Monza).

Si tratta di un tipo di donazione che richiede procedure particolari e che – ha spiegato il chirurgo Paolo Muiesan del “Queen Elizabeth Hospital” di Birmingham – in Europa è soggetta a maggiori limitazioni rispetto agli Stati Uniti, derivanti principalmente dalle paure e dalle diffidenze espresse dai media e dall’opinione pubblica. Resistenze cui in buona parte si deve il fatto che in Italia – diversamente da altri paesi europei quali l’Inghilterra e la Francia – la donazione a cuore fermo non è una pratica comune. Per Nanni Costa ma anche per Citterio, invece, dovrebbe diventare stabile anche da noi, soprattutto perché potrebbe far aumentare del 30-40% i trapianti di polmone. A loro parere, infatti, i venti minuti a disposizione per intervenire dopo l’accertamento di morte cardiaca non sarebbero un problema insormontabile. E per Nanni Costa non esiste alcun ostacolo normativo, prova ne sia il fatto che un intervento sia già stato legittimamente effettuato. Quel che resta da superare sono soprattutto le resistenze etiche, legate al fatto che questo tipo di donazione abbrevia tutti i tempi a disposizione delle équipe che si occupano di prelievo e trapianto, compreso il tempo necessario per informare i familiari della morte, proporre la donazione degli organi e attendere che questi prendano la loro decisione.

Inoltre, come hanno evidenziato Muiesan e il collega Wayel Jassem del “King’s College” di Londra, bisogna scegliere riceventi che siano in grado di sopportare bene l’impianto di organi in condizioni non ottimali. Questi, infatti, hanno subito una prolungata ischemia (ossia un’interruzione dell’afflusso di sangue) e quindi potrebbero non funzionare perfettamente o causare problemi ad altri organi. Anche in questo caso, quindi, il paziente da trapiantare deve essere molto attentamente individuato e seguito, il che richiede anche – come già ricordato – informarlo correttamente sui rischi che questo tipo di donazione può comportare.

IL DONATORE VIVENTE – La donazione da vivente è un’altra situazione particolare in quanto le persone da seguire sono due: donatore e ricevente. In questo caso, quindi, occorre curare molto la selezione del donatore e garantire la corretta informazione su rischi e vantaggi a entrambi i pazienti, come ha precisato Cristina Silvestre (collaboratrice di Paolo Rigotti, responsabile dei trapianti di rene e pancreas dell’azienda ospedaliera di Padova).

Per quanto riguarda i trapianti di rene, in Italia come a livello internazionale – ha spiegato ancora – attualmente non esiste un limite massimo di età per i donatori viventi e i criteri per la valutazione dell’idoneità sono stati allargati. I donatori anziani, infatti, hanno possibilità di sopravvivenza e rischio cardiovascolare comparabili alle persone non donatrici e ai donatori viventi “standard”. Silvestre ha, però, ammesso che – considerata la difficoltà di seguire i donatori nel post-trapianto, anche per mancata collaborazione degli interessati – è difficile raccogliere dati del tutto attendibili. Ciò che varia, invece, è il risultato del trapianto, che risulta migliore se il donatore vivente è una persona giovane. In ogni caso, con la donazione da vivente si ottengono migliori risultati che con la donazione da paziente deceduto.

LA CULTURA DELLA DONAZIONE – D’Antonio ha ricordato che il trapianto è una terapia ma, a differenza delle altre, richiede un atto di generosità, per cui l’informazione è fondamentale per creare una cultura della donazione.  Tale cultura, infatti, può affermarsi solo superando i pregiudizi e l’ignoranza ancora troppo diffusi riguardo a questi delicati temi.

Leggendo la nostra sintesi del congresso, ad esempio, qualcuno potrebbe avere la sensazione che i medici declassino i pazienti deceduti da persone a oggetti e che li trattino alla stregua di “fabbriche di organi”. Niente di più falso: per un operatore sanitario la morte di un paziente è innanzitutto un grande dispiacere a livello umano e una sconfitta a livello professionale. Solo in seconda battuta può eventualmente diventare un’opportunità per salvare altre vite, rendendo così meno dolorosa quella perdita per tutti, per il personale sanitario come pure per i familiari. E se questa precisazione non è stata fatta durante il congresso, è semplicemente perché l’evento era rivolto prevalentemente agli addetti ai lavori (operatori sanitari, studenti, associazioni di volontariato operanti nel settore…) e, pertanto, queste considerazioni ben potevano darsi per scontate.

persone che assistono a un congressoA onor di cronaca va precisato che la prima giornata di lavori è apparsa più “fredda”, fatta eccezione per gli interventi dei rappresentanti delle associazioni, dei gruppi di auto-aiuto e di Stefano Fagiuoli (direttore della Gastroenterologia dell’ospedale “Papa Giovanni XXIII” di Bergamo) che, con la sua brillante relazione sulle nuove cure per l’epatite C, ha suscitato un vivace dibattito. Più calorosi e umani si sono dimostrati gli interventi del secondo giorno, prevalentemente di infermieri. In particolare, Emanuele Ginori e Serena Caselli (operatori dei centri di coordinamento rispettivamente dell’ASL 11 di Empoli e dell’ASL 4 di Prato) hanno comunicato grande professionalità e competenza ma anche grande passione per il proprio lavoro. Il loro entusiasmo è stato esplicitamente apprezzato dal pubblico, al quale Caselli ha risposto con naturalezza che senza di esso non è possibile fare questo lavoro, perché non si potrebbe reggerne il carico emotivo.

Sono loro ad avere maggiormente posto l’accento sulla necessità che si affermi una cultura della donazione, anche a vantaggio degli stessi operatori sanitari (medici o infermieri) chiamati a chiedere il consenso per il prelievo degli organi ai familiari del paziente deceduto. Spesso, infatti, ha raccontato Ginori, per gli operatori è già gravoso comunicare la morte ai parenti (che possono anche essere difficilmente individuabili e reperibili oppure possono parlare lingue straniere). Affinché le opposizioni alla donazione (ormai riconosciute come eventi avversi, ha precisato Tommaso Bellandi del Centro per la gestione del rischio clinico e sicurezza del paziente della Toscana) si riducano è fondamentale l’approccio degli operatori sanitari che chiedono il consenso, per cui questi devono aver seguito una formazione specifica. Ma – hanno ricordato i relatori -cruciale è pure l’attività di informazione svolta da istituzioni pubbliche e associazioni.
Occorre far capire ai parenti della persona deceduta che anche loro possono aiutare qualcuno, che anche loro possono contribuire a salvare delle vite. Ma affinché decidano di compiere questo gesto di grande generosità – ha sottolineato Ginori – è fondamentale che abbiano avuto la percezione che il loro caro è stato adeguatamente assistito fino alla morte.

 

Foto Giuseppe Argiolas

 

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