La solitudine di Putin, lo zar folle
di Angela Casilli *
Quando fu eletto Presidente della Russia Putin,nel discorso di accettazione citando la caduta del muro di Berlino del novembre 1989, disse che si sarebbero evitati tanti problemi se l’Europa Orientale non fosse stata lasciata dai russi così frettolosamente. Egli era convinto che il più macroscopico errore che la Russia bolscevica avesse mai potuto commettere era stato quello di permettere l’indipendenza delle Repubbliche che gravitavano nell’orbita sovietica, soprattutto di quelle slave, creando “il più grande gruppo etnico del mondo, quello russo diviso da confini di Stato”.
Era necessaria questa premessa per cercare di capire le motivazioni profonde che hanno portato questo moderno Zar a ordinare la più vasta operazione militare in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale e cercare di capire, nel contempo, quanta ragionevolezza ed equilibrio esistono ancora in lui.
Che Putin abbia deciso di invadere l’Ucraina trent’anni dopo la sua ascesa al potere in nome dell’unità del popolo russo, è chiaro a tutti, meno chiaro o meno comprensibile è il processo mentale che ha convinto il leader del Cremlino a scatenare una guerra distruttiva che può vederlo vincitore ma che rischia anche di trasformarsi in una vittoria di Pirro, perché le conseguenze politiche, economiche e strategiche saranno per la Russia gravissime.
Quando nel 2014 Putin annetté la Crimea, giustificò l’annessione invocando il russkijmir, il mondo russo, auto-investendosi della missione di riunificarlo: parlò della “nazione russa divisa” e della necessità di “proteggere la civiltà russa dai pericoli di forze esterne” come quelle che sarebbero potute venire dall’Occidente, sottolineando il ruolo di campione delle popolazioni russofone proprio della madre Russia e il suo diritto a esercitarlo.
Certamente la Russia di Putin non è l’Urss di Breznev, ucraino di nascita, ma la sindrome di accerchiamento, ieri Napoleone e Hitler, oggi la Nato, oltre alle ambizioni imperialiste sembrano impresse nel DNA della geopolitica russa. Trentatré anni dopo la caduta del muro di Berlino, l’Europa Orientale è ancora una minaccia o un ideale a seconda dei punti di vista. Qualunque sarà l’esito della partita ucraina, nei prossimi anni ci sarà una linea che separerà di nuovo il continente europeo in due blocchi, una linea che andrà dal mar Baltico al mar Nero, tra i popoli slavi e gli altri popoli.
Aprire la crisi in Ucraina è per Putin la catarsi geopolitica necessaria al riordino dei rapporti tra la Russia e il mondo occidentale. E’ un mondo nel quale, come a Kiev, governano bande di neonazisti, che si arma con l’aiuto americano e minaccia militarmente la Russia ed è per questo che l’Ucraina va smilitarizzata, il suo esercito liquidato e il Paese privato di tutte le strutture essenziali ad una sua crescita democratica.
Nella mente di questo moderno zar si è formata una realtà alternativa, come accade in quelli che sono affetti da lucida follia, che si è andata formando nei vent’anni in cui è stato Presidente, dove tutto è una battaglia da vincere e tutto grida vendetta per lo status perduto nella sconfitta della Guerra Fredda e nell’umiliazione che da allora la Russia subisce. Da quando, poi, ha modificato nel 2020 la Costituzione diventando presidente a vita, Putin si sente onnipotente; può stravolgere le regole a suo piacimento e questo cambia il suo modo di rapportarsi con avversari sia interni che esterni.
Pensa ormai da monarca assoluto e identifica il destino della Russia con il suo; di certo è sempre più compenetrato nella sua missione e sempre più isolato sia dal Paese che dai suoi collaboratori, che lo vedono da distanze imbarazzanti. L’isolamento fisico e mentale, oltre ad una salute non proprio al meglio come tradisce il suo gonfiore, solo in parte possono giustificare la sua politica aggressiva e legittimare il suo regime autocratico.
Ipotizzare cosa farà è difficile e forse ancora più difficile sarà negoziare con lui; potrebbe accontentarsi della mini-annessione del Lugansk e Donetsk e di quella strisciante della Bielorussia, oppure prendere tempo e pensare a testare i limiti della pazienza degli occidentali, tenendo sempre presente, però, l’Ucraina, il gioiello mancante all’unificazione definitiva del mondo russo, il russkijmir.
Oggi, come ieri, il conflitto tra sovranità statuale e autodeterminazione dei popoli, condizionato da sfere di influenza e micidiale propaganda, resta drammaticamente attuale e insolubile, almeno che non si voglia rimpiangere stabilità da guerra fredda e regimi che pensavamo scomparsi per sempre.
* già docente di Storia e Lettere nei licei di Roma