LA VOCE DI UNA GIOVANE DISABILE MILANESE: CLELIA CUOZZO
E’ affetta da tetraparesi spastica ma non priva di dignità e determinazione rifuggendo dall’essere istituzionalizzata. Il prossimo ostacolo da superare riguarda quel momento meglio noto come “il dopo di noi”
di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)
Il pianeta handicap, o se si vuole più correntemente delle disabilità, è sempre più in aumento e variegato. E ciò non solo a causa di infortuni vari, ma anche di patologie congenite e non, ivi comprese quelle rare alcune delle quali in assenza di diagnosi. Ma quando si tratta di patologie invalidanti pregresse e accertate come quelle di origine neuromotoria, il campo delle stesse si estende con “l’aggravante” della scarsa considerazione per le persone che ne sono affette. È il caso, ad esempio, di Clelia Cuozzo, una 44enne di Cinisello Balsamo, affetta da tetraparesi spastica perinatale. Persona molto limitata nei movimenti in quanto si sposta in carrozzina, e anche se abbisogna di comuni aiuti materiali, dal punto di vista intellettivo e relazionale può essere di esempio ai cosiddetti normodotati. In effetti tale proprietà psicodinamica e culturale non le ha precluso di avere un impiego (sia pure a part-time) presso una Pubblica Amministrazione locale; un impiego che le procura un reddito ma che non è sufficiente in funzione delle spese ordinarie da sostenere (anche con un modesto sussidio statale), alle quali sono da aggiungere quelle per alcune ore settimanali di sedute di fisioterapia-riabilitativa (prevenzione secondaria), oltre ad altrettante per la colf. Pur convivendo con la madre, quest’ultima è anziana e non è più in grado di essere di aiuto alla figlia. «Dal punto di vista relazionale – spiega – sono circondata da amici, e intensi sono gli affetti famigliari, che sono i miei punti fermi». Clelia in ogni caso è da considerarsi una persona normale, con un suo carattere, le sue esigenze e soprattutto la sua dignità; ma ciò che la preoccupa è quel fatidico “dopo di noi”, ossia l’incertezza per il suo accudimento una volta sola, più avanti con gli anni e soprattutto meno efficiente fisicamente… Pur non volendo essere, per così dire, istituzionalizzata, per Clelia Cuozzo il pensiero del futuro incombe e, come ben si sa, nessuna istituzione può sostituirsi agli affetti familiari. Il suo desidero, quindi, anela libertà, una libertà che rischia di essere condizionata, un rischio che secondo lei (e quanti come lei) potrebbe essere ridimensionato se le Istituzioni integrassero (sia pur minimamente) le sue entrate, anche perché una volta in pensione il corrispettivo sarà modesto per effetto del part-time. Da ciò si può dedurre che i casi come il suo potrebbero “pesare meno” sulla collettività e sullo Stato, se solo quest’ultimo considerasse le persone affette da disabilità anche dal punto dei vista economico garantendone maggiormente l’indipendenza. Ma burocrazia e ingiustizia sono ostacoli che le Istituzioni non riescono (o non vogliono) superare e, a fronte di questi due “ostacoli”, la persona disabile che ha pur sempre una dignità da rispettare, rischia di entrare in quel baratro che si chiama indifferenza istituzionale… Quindi, sia a queste ultime che all’intera collettività, va ricordato che il senso della nostra pochezza e delle nostre debolezze, nonché superficialità, deve essere stimolo per l’impegno quotidiano di tutti noi nel diffondere cultura, compreso il rispetto della Persona in quanto tale e in tutte le sue manifestazioni, ivi comprese le esigenze di sopravvivenza… soprattutto in previsione del “dopo di noi”. E, alla giovane Clelia non mancano determinazione e costanza, ma resta il fatto che le Istituzioni devono essere più partecipative!