L’abitudine alle vittime di guerra
Ci ha scritto un nostro lettore. Ecco le sue riflessioni sulle vittime della guerra.
“L’impressione è che stiamo cominciando ad abituarci anche ai nostri morti in Afghanistan.
Delle morti dei militari “nemici”, diciamocelo sinceramente, i nostri media non si sono mai occupati con regolarità, quasi non esistessero perché si tratta solo di talebani, di membri di Al
Qaeda e comunque appartenenti a quell’esercito del male e del terrore che ha osato attaccare il cuore dell’Occidente. In quanti conoscono le reali perdite dell’esercito talebano? Penso in pochi, e sicuramente solo tra gli addetti ai lavori. Delle vittime civili afghane invece, non si deve parlare, non esistono perché i modernissimi armamenti occidentali li evitano uno per uno, i droni e le bombe intelligenti li schivano e vanno a colpire solo i colpevoli evitando inutili ed oltretutto dannose (per l’immagine dell’occidente) carneficine di innocenti. Peccato che questo perfetto sistema disinformativo, o meglio di informazione pilotata, ogni tanto si inceppi e lasci trapelare qualche notizia, qualche testimonianza della realtà afghana, e allora scopriamo ospedali colmi di persone inermi terribilmente mutilate, bambini privati del loro presente ancor prima che del loro futuro, gente allo stremo, senza case e senza cibo, disperati.
Ma non devono esistere! Guai a soffermarsi sulle poche immagini e notizie che sfuggono al controllo globale.
Ora tocca ai nostri morti: i soldati italiani.
Ci hanno indorato la pillola con la missione di pace, salvo poi rivedere le regole di ingaggio che di fatto prevedono un intervento attivo delle nostre truppe in azioni militari, quindi pienamente inserite nel teatro di guerra, lì dove morire è normale.
I primi morti erano eroi, poche vittime sacrificate (o sacrificali?) al bene comune, crudelmente uccisi dai Talebani la cui ferocia e guerra senza regole non si fermerebbe neanche dinanzi ai nostri connazionali in missione di pace. E allora via agli innumerevoli servizi televisivi, interviste chiaramente concordate con lo stato maggiore dell’esercito, pianti, funerali in diretta, clamore, tanto clamore e dolore (più o meno sincero) per la perdita di persone che negli immancabili servizi strappalacrime venivano descritte come persone generose, fedeli alla famiglia e alla patria, ma soprattutto altruisti a tal punto da sacrificare la propria vita per aiutare un popolo in difficoltà. Stranamente la maggior parte provengono dalle regioni del sud, dove forse l’arruolamento per un giovane è la via più semplice e diretta per assicurarsi un immediato futuro non senza qualche agio e un futuro programmato con la stabilità che in pochi giovani meridionali possono permettersi; ragazzi inviati in Afghanistan senza che conoscano nulla della storia del paese, a combattere contro i terroristi delle torri gemelle che però non erano Afghani e contro quei Talebani armati in un recente passato proprio dall’Occidente.
Adesso tocca anche a loro, le loro morti cominciano a susseguirsi con una certa regolarità e allora come d’incanto cominciamo a fare l’abitudine anche alle loro morti, ai nostri morti. E allora scompaiono le notizie sparate per giorni e giorni in prima pagina, niente più servizi interminabili, ma servizi rapidi, morti comunicate, normale bollettino di una guerra che non sappiamo di combattere in una nazione mai esistita, ma da tempo martoriata e divisa da guerre tribali per il controllo del territorio.
Ci stiamo abituando alla regolarità della morte in guerra, non più evento raro ed eccezionale per noi italiani, ma sempre più frequente aggiornamento di cronaca nera, come lo può essere un qualsiasi delitto quotidiano quale una rapina.
I morti in guerra scompaiono e diventano marginali e forse anche questo è un segno ulteriore di un regime che non vuole essere disturbato nelle sue manovre.
Giovanni Virruso