L’AFFASCINANTE PERCORSO DEI LUNEDÌ DELLA SALUTE TORINESI
La prevenzione con particolare riferimento alla psiche, ma anche alle malattie vascolari
di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)
Altri due cattedratici hanno varcato la soglia universitaria del MBC, intrattenendo l’uditorio sui temi: Il dolore fra corpo e psiche (Prof. Riccardo Torta, neuropsichiatra e psico oncologo), e La prevenzione e la cura della malattie vascolari (Dott. Franco Ribero, chirurgo e anestesista-rianimatore). È noto che per avere dolore deve esserci uno stimolo, periferico, che può essere meccanico quando viene esercitata una pressione, ma lo stimolo può essere anche calorico se una certa zona, o anche di altro genere come avviene nelle patologie viscerali; oppure di origine elettrica (intensità di corrente con cui si dà lo stimolo). Tutto ciò attiva la periferia (le vie sensoriali) che giungono ai nervi e quindi al midollo e da questo lo stimolo arriva al cervello. Di conseguenza, la risposta cerebrale avviene in tante aree come quelle sensoriali che nel cervello elaborano il dolore interessando proprio la coscienza… «Questo tipo di risposta cerebrale – ha spiegato il primo relatore – è influenzata dagli aspetti emozionali e da quelli cognitivi. Quindi, il rapporto tra corpo e psiche è da sempre dibattuto (in filosofia, religione, medicina, etc.) e si è partiti da un concetto di unità, ossia la teoria degli umori era un tutt’uno comprendendo aspetti, fisici esterni, corporei, psichici; ma con Cartesio è emersa la dicotomia tra corpo e mente che gli consentiva di non incorrere con i suoi studi nelle ire della Inquisizione. Oggi si rileva tale concetto (dicotomico) tant’è che la Facoltà di Psicologia insegna a curare la mente, e quella di Medicina la cura del corpo; un “errore” scientifico-culturale difficile da superare». Con la psicoterapia e la sua interpretazione di tipo psicodinamico e inconscio legato alle malattie, Sigmund Freud ha permesso di fare un passo avanti sino ad arrivare asd adottare il modello psicosociale. Un cambiamento vero e proprio in quanto porta all’attenzione dei medici il fatto che qualsiasi malattia (dolore compreso) ha una componente biologica ma anche emozionale e cognitiva, pertanto si devono prendere in carico tutte e tre. «Altra dicotomia – ha aggiunto il clinico – è il rapporto tra dolore e sofferenza, che peraltro non sono sinonimi… Il dolore è inevitabile mentre non lo è la sofferenza e, a questo riguardo, la Bibbia riprende tale concetto in riferimento al “parto indolore” con relativi pregiudizi di cambiamento. La cultura greca e quella latina costituiscono uno spiraglio: curare il dolore è giusto, come pure va rilevata la differenza tra il fato e il destino. Nel Medioevo il dolore era inteso come punizione, ma Sant’Agostino affermava che il dolore non ha nulla di meritorio, quindi va abolito il concetto di espiazione. Recentemente la Chiesa cattolica ha preso una netta posizione: curare il dolore è lecito e doveroso. Quindi il dolore è dell’essere vivente (ma anche degli animali), ma la sofferenza è propria dell’essere umano, pertanto si deve curare non solo il dolore ma anche la sofferenza». Venendo al modello psicosociale il cattedratico ha precisato che il dolore può avere una causa organica, e può essere aumentato o diminuito dagli aspetti emotivi; la depressione, ad esempio, aumenta la percezione del dolore, la cognitività e la paura aumentano la sensazione di dolore, o può essere inibito, quindi, si tratta di agire sulla nostra mente per usare quegli strumenti prodotti dal cervello al fine di ridurre la sensazione dolorosa. La Medicina ha sempre “delegato” il supporto sociale della malattia agli assistenti sociali, ma i medici spesso “dimenticano” che la componente sociale può essere parte integrante della malattia. «Oggi – ha precisato – i confini tra somatico e psichico si stanno sempre più riducendo. Si prenda ad esempio la neuro infiammazione che è presente in molte malattie (anche nel Covid), ma quando c’è una infiammazione è causa di problemi fisici, come pure degli aspetti emozionali: depressione, ansia, insonnia, disturbi cognitivi, etc., e nel long covid si stanno constatando disturbi cognitivi che non si sarebbero immaginati… Si considerino inoltre i sintomi influenzali, il dolore diffuso, l’inappetenza, etc., tutti sintomi presenti anche nella depressione; oltre al microbioma che influenza tutti gli organi, sia pur variando con l’età, esponendo il paziente ad ulteriori fattori di rischio». In merito al rapporto tra corpo e psiche, dunque, inteso nell’unitarietà tra soma e psiche, Galilei sosteneva che le proprietà di uno stimolo sono diverse dalle impressioni sensoriali; mentre il neurofisiologo Mario Tiengo (1922-2010) sosteneva che il dolore è la venuta presa di coscienza di uno stimolo nocicettivo, ossia il dolore diventa tale quando il nostro cervello lo recepisce come tale. Il prof. Torta ha poi citato tre domande: il dolore è nel corpo o nelle mente? La percezione del dolore è fisica o mentale? La terapia del dolore è fisica o mentale? «Anzitutto – ha spiegato – va fatta la distinzione tra dolore acuto e dolore cronico. Il dolore acuto serve, è protettivo e la medicina sa curare bene il dolore acuto (vedi l’anestesia) con l’ausilio di terapie opportune; il dolore cronico è ben altra realtà in quanto può persistere in assenza di uno stimolo per la memoria del dolore provocato dallo stimolo stesso, ed è una malattia a sé; mentre il dolore acuto è un sintomo quello cronico è una malattia e come tale va curata, anche se a riguardo non mancano difficoltà nella gestione della terapia. Un concetto importante è sapere che quando il dolore da acuto diventa cronico, le aree del cervello che valutano tale dolore sono diverse. Nel dolore acuto vi sono le aree sensoriali preposte a comprendere quale è lo stimolo e da dove proviene, nel dolore cronico le aree più importanti sono quelle emotive che regolano la cognitività del dolore stesso. Il cervello ha la capacità di ridurre il dolore, ma ciò dipende da altre vie come il centro inibitorio…». Ma cosa c’entra la cognitività con il dolore? «Molto – ha precisato il cattedratico –: se si ha paura del dolore lo stesso è amplificato, e ci sono altri momenti in cui la distrazione dal dolore fa sentire meno l’intensità dello stesso, e l’ipnosi, ad esempio, agisce in merito». Il relatore ha poi spiegato come si cura il dolore. In effetti con i farmaci, con la psicologia, con le terapie fisiche o con gli interventi sociali. Ma quali i farmaci? «Ve ne sono molti – ha precisato – e quelli più usati sono usati per tutti i tipi di dolore. Ma bisogna considerare tre grandi categorie di dolore: il dolore nocicettivo, che è il dolore che si ha quando ci si fa male o si contraggono patologie croniche, e vanno bene tutti i farmaci. Il dolore neuropatico, ossia quando è compromesso un nervo (ad esempio nel caso della nevrite, e dell’herpes zoster popolarmente noto come il “fuoco di Sant’Antonio), in questi casi sono indicati alcuni farmaci rispetto ad altri. Anche il dolore nociplastico, ma può esserci dolore senza lesione come nel caso dell’asportazione dell’ernia discale, ma il dolore permane perché il cervello l’ha memorizzato; quindi si tratta di riconoscere la dignità del dolore a pazienti che non hanno una lesione, e questo tipo di dolore prevede cure diverse: alcune funzionano in modo particolare ma hanno come problema maggiore la tossicità gastrica…». Proseguendo nella lunga elencazione il relatore ha menzionato anche gli oppioidi, una classe di farmaci molto potenti che consentono di gestire al meglio la terapia del dolore grave come nel caso delle cure palliative, con la premessa di non togliere il dolore ma di ridurlo (o alleviarlo), dei quali però è bene non farne abuso; mentre la cannabis è un fitoterapico che serve se usato in modo opportuno, e se associato agli oppioidi è ottimale. Per quanto riguarda gli adiuvanti il prof. Torta ha spiegato: «Come i cortisonici, i miorilassanti, gli antidepressivi, agiscono non solo sull’umore ma anche sul dolore. In merito alla psicoterapia può essere utile se la psiche entra nella dinamica del controllo del dolore, generalmente viene associata ai farmaci analgesici; oltre a considerare la terapia cognitivo-comportamentale, la psicodinamica, le tecniche di rilassamento e l’ipnosi. Sono terapie che funzionano perché riducono l’ansia e la paura del dolore aiutando il paziente ad essere più proattivo. Facendo tutto questo significa aiutare la prognosi di un paziente. Del resto è molto più facile curarsi (o farsi curare) attivamente che rimanere passivi e attendere che un farmaco funzioni. Infine, tocca precisare, tutto quello che è attività fisica influisce biologicamente sul nostro corpo e sul nostro cervello, Concludo ricordando che altrettanto utile è anche il supporto biopsicosociale intervenendo, ad esempio, sulla solitudine, precisando che la diagnosi e la terapia del dolore devono essere centrate sul paziente e non sulla malattia».
Il secondo relatore ha ricordato l’importanza della prevenzione della malattia arteriosa e in questo caso la prevenzione è riferita soprattutto all’arteriosclerosi, e prevenire la malattia venosa vuol dire prevenire l’insufficienza venosa cronica. Per ambedue i casi è necessario avere alcune nozioni con particolare riferimento a come mantenere una efficiente circolazione. «Questo perché – ha spiegato il dott. Ribero – le complicanze sia della malattia arteriosa che venosa sono spesso assai gravi, in quanto come conseguenza si può andare incontro ad una ischemia (scarso afflusso di sangue agli organi): infarto, ictus, etc. Prevenire la malattia venosa significa, quindi, evitare l’insufficienza del sistema circolatorio a livello periferico come ad esempio agli arti inferiori». L’aterosclerosi è una condizione patologica caratterizzata da alterazioni della parte che perde elasticità, e ciò a causa di un accumulo di colesterolo e di materiale fibroso; l’arteriosclerosi, invece, è un ispessimento della parete del vaso, il cui processo è più fisiologico in funzione dell’aumento dell’età. «Per prevenire la malattia arteriosa – ha ricordato il relatore – bisogna ridurre i fattori di rischio modificabili come il fumo, l’inattività fisica, il diabete, l’ipertensione, l’eccessivo consumo di alcol, lo stress, etc. Tale prevenzione richiede in particolare il controllo della dislipidemia, ossia l’eccesso di grassi nel sangue, quindi è necessario il controllo dei valori del colesterolo, al fine di evitare la formazione di placche ateromatose che determinano modificazioni strutturali e cellulari della parte arteriosa. Ma il controllo riguarda anche i valori dei trigliceridi (i lipidi più diffusi) che si trovano nel plasma umano e sono originati in parte dalla alimentazione: il cibo che assumiamo comprende i lipidi visibili e invisibili». Per quanto riguarda la terapia della malattia arteriosa il clinico ha spiegato che si tratta di modificare anzitutto i fattori di rischio ormai noti a tutti e ripetuti, inoltre si interviene con una terapia medica e/o chirurgica. Per quanto riguarda le statine, sono un gruppo di farmaci utilizzati per abbassare i livelli di grassi nel sangue (colesterolo e trigliceridi). «Le linee guida sulla prevenzione della malattie cardiovascolari in clinica – ha concluso il dott. Ribero – raccomandano la valutazione del rischio cardiovascolare, in quanto l’aterosclerosi è causata da una serie di fattori di rischio come quelli enunciati, la cui applicazione è spesso su base individuale. Nel caso della patologia denominata trombosi venosa profonda, ossia l’ostruzione dei vasi, la prevenzione riguarda quanto sinora detto, e la terapia medica riguarda la somministrazione di anticoagulanti il cui obiettivo è l’inibizione diretta della trombina, ma talvolta è utile l’adozione di calze elastiche compressive antitrombi, oltre alla farmacologia come gli integratori alimentari».
Foto a cura di Giovanni Bresciani