L’angolo di Full: “Il calamaio”
Nel suo saggio Sulla lingua del tempo presente, Gustavo Zagrebelsky si sofferma, tra le altre cose, sul diffondersi del “linguaggio dell’esasperazione” e sull’eccessiva frequenza con cui l’avverbio “assolutamente” fa ormai capolino nei nostri discorsi. In effetti, nei nostri giudizi, positivi o negativi che siano, tutto sta diventando “issimo”. Un fenomeno preoccupante sulle cui cause in questa sede non intendiamo soffermarci, ma che ha sicuramente una conseguenza immediata e visibile: livellare formalmente persone/cose/eventi/fenomeni di valore differente e rendere meno attendibili i giudizi.
La realtà delle cose, tuttavia, aiuta a verificare se alla lode corrisponda l’effettivo valore, per cui leggendo questo brano di Fulvio Musso sarete senz’altro tutti concordi nel concludere che, oltre ad essere recentissimo, sia anche bellissimo e delicatissimo.
Il calamaio: ovvero, dove intingere la penna
Filippo s’accomodò al tavolo della sala, scelse una biro blu nuova nuova e cominciò di buon buzzo:
“Gentile signora Cristina…” e si piantò per cinque minuti.
Vi sono persone che, a voce, sanno esprimersi disinvoltamente e con elegante vena come se cervello e corde vocali fossero collegati da un’autostrada. Per contro scrivono male; i loro neuroni non sanno impartire chiare istruzioni alla mano che scrive, la costruzione è monotona e la battuta più salace, non appena si sdraia sulla carta, s’addormenta. Il foglio bianco diventa un severo esaminatore che annoterà ogni imperfezione. La voce, invece, svanisce subito nell’aria come una musichetta. La si può modulare, intonare, cambiare di volume e, addirittura, la si può rafforzare mimando, ammiccando, gesticolando. Chi scrive, ahimè, dispone solo del proprio stile e degli argomenti.
Al contrario, c’è chi s’impappina se ha davanti più di due ascoltatori e, in ogni caso, la sua oratoria non rende giustizia all’intelletto. Il collegamento fra cervello e corde vocali è un vicolo stretto pieno di curve che rallentano, di vetrine che distraggono. Tuttavia, con un foglio bianco davanti, costui potrebbe partire da una qualsiasi parola del vocabolario e appiccicarvi due pagine in bello stile e di buon contenuto.
Ci sono infine i più indifesi: coloro che hanno dentro delicate poesie incapaci di sbocciare dallo stelo rinsecchito di una penna e pensieri ardenti che mai impararono a parlare.
Filippo smise di preoccuparsi su cosa scrivere e come cominciare. Con la genialità che spesso lo soccorreva, considerò di raccontare quel sentimento al suo migliore amico:
“Gentile signora…”, scrisse a se stesso…
Alcuni poeti ritengono che l’anima sia fatta di sofferenza senza la quale morirebbe. E qualcuno, più coltivatore che poeta, interpretò il concetto affermando che la depressione è il concime della creatività.
Di certo, la spiritualità, la poesia, la creatività, non progrediscono con l’incuria, ma abbisognano di un habitat appropriato, di qualcosa che le alimenti e una di queste condizioni è la sofferenza, ma non è l’unica.
Quando si convive con persone che hanno un diverso senso delle cose, tutti i discorsi si diluiscono nel contingente quotidiano, nelle banalità, nell’interesse. Filippo aveva vissuto vent’anni con una donna che diceva cose che lui avrebbe potuto anticipare pur non essendo un veggente. A volte non sapeva nemmeno se la moglie stesse parlando con lui: parlava quando lui era presente, tutto qui. E, come spesso accade, lui le si era adeguato parlando allo stesso modo.
Ma, nell’ultimo anno, Filippo aveva attraversato il mare: dal suo matrimonio senza comunione, alla vita del single, dapprima improvvisato, poi rassegnato e infine consapevole. Aveva frequentato la solitudine, la sofferenza, la riflessione e con esse, la poesia. E sempre più sovente, faceva visita a se stesso.
Chiunque l’avesse conosciuto e frequentato, non avrebbe avvertito questa evoluzione intima se non attraverso sfumature che sanno cogliere solo poche anime, o attraverso la lettera che stava scrivendo di getto alla signora Cristina:
“Gentile signora, sono un uomo fortunato perché la mia vita passeggia sorridendo e senza fretta. Molte volte, infatti, il momento ha fatto sosta in casa mia. Fra quelli che conservo nel profondo del cuore, ve ne sono due che si somigliano: la prima volta che vi passò il tripudio d’una banda musicale e l’attimo che venne accarezzato da un suo sguardo, signora Cristina…”
Fulvio Musso
Ecco ciò che il racconto mi ispira.
Accedere alla intima, nascosta e spesso inraggiungibile soglia di noi stessi è compito faticoso che rispecchia tutta la parte visibile della nostra vita fatta di salite lente e scivoloni precipitosi. La penna è un utensile leggero per portare in superfice un pezzetto di se.