L’angolo di Full: “La burla”
L’ironia viene spesso usata per sviare l’interlocutore, camuffando con il ridicolo verità spiacevoli. Talvolta lo si fa per fini poco lodevoli, come ha ricordato lunedì scorso a Cagliari la prof.ssa Daniela Virdis durante l’evento La voce addolorata. Altre volte, invece, l’intento è positivo: portare gli altri, sorridendo, a riflettere su una questione seria. Fulvio Musso lo fa per questo. E lo fa da maestro, come ci dimostra il racconto che vi proponiamo oggi.
La solitudine può avere nomi molto brevi oppure lunghissimi. Oggi l’ho sentita chiamare: “hotrovatopercasoiltuonumeroditelefono”. Era Medardo, antico compagno di suicidio. Da ragazzi, infatti, avevamo deciso di suicidarci insieme per darci coraggio a vicenda. Tanto eravamo coraggiosi che finimmo in pizzeria a suicidarci di birra e margherita.
Perché volessimo ammazzarci me l’ero quasi dimenticato. A quell’età, tutto arriva amplificato, dall’esterno o dall’interno. Soltanto le proprie stronzate non le si notano.
Di quelle ne facevamo parecchie. Un giorno impiccammo uno. Un fantoccio, intendo. Era ancora l’epoca delle burle, dato che mancava la televisione e non si trovava una ragazza. Oggi, a prendersi burla, restano giusto i politici.
Abitavamo una sorta di casa dello studente, ma poichè eravamo studenti lavoratori, l’insegna diceva “Casa del giovane lavoratore” che era anche un pretesto per succhiarci una pigione maggiore, dato che una paga, bene o male, la pigliavamo.
Alla burla partecipammo in tre. A noi due s’era aggiunto Paride, uno che andava sempre a rimorchio.
Destinatario dello scherzo era il vice responsabile del pensionato, signor Gorla. Era essenzialmente un buono e, come tutti i buoni, un po’ pirla. Camminava a passetti brevi, diceva “oddio!”, vestiva incravattato e, per quanto alto, riusciva a guardare tutti dal basso. A me faceva tenerezza, ma era talmente perfetto per il ruolo di buggerato che la scelta non poteva cadere diversamente.
Vestimmo il fantoccio con un impeccabile abito grigio e lo impiccammo in una delle camere. Poi abbassammo le tapparelle e svitammo le lampadine per evitare che, accendendo le luci, lo scherzo balzasse subito all’occhio. Nella penombra, l’impiccato pendeva lugubre e realistico, tanto che impressionò persino noi.
Citofonammo alle ricezione (in italiano moderno, reception) e chiedemmo di mandare il signor Gorla perché un ragazzo della tal stanza stava male. Poi lo aspettammo nascosti sotto i letti.
“Oddio…” lo sentimmo mormorare quando aprì la porta. Seguì l’inutile clic dell’interruttore e vedemmo le gambe del signor Gorla correre alla tapparella. Poi fu silenzio. I suoi pantaloni gessati restavano accanto la parete come se lui vi fosse appoggiato. Aspettavamo che ci scoprisse per buttarla in ridere. Invece, dopo un po’, lui se ne andò in silenzio senza neppure toccare il fantoccio.
Uscimmo da sotto i letti bastonati come se lo scherzo l’avessimo subito noi.
Non vedemmo il signor Gorla per alcuni giorni. Malato, ci dissero.
Al telefono, Medardo si lamenta che è sempre più difficile fare il genitore, nelle case non c’è più dialogo e la famiglia non è più un valore, lui non è razzista ma se ne stessero al loro paese, intanto i politici pensano solo alla poltrona, Internet è il futuro, il clima e cambiato e Paride, se mi ricordo di lui, ha sposato la sua “principala” perché Paride, se mi ricordo di lui, era sempre andato a rimorchio…
A proposito dell’andare a rimorchio, ora rammento bene perché io e Medardo volevamo suicidarci. Successe alcune settimane dopo la burla del fantoccio. Dissero che il signor Gorla s’era impiccato. Come, anni prima, suo padre.
Fulvio Musso