L’angolo di Full: “Le scarpe di pezza”
Due giorni fa abbiamo celebrato la Festa della Liberazione, per cui quest’oggi vi proponiamo un bellissimo racconto a tema di Fulvio Musso, tratto dalla sua serie autobiografica.
Il tragitto era breve, ma il tempo di percorrenza, una quaresima. D’altronde, nel 1944 era già una botta di fortuna poter prendere un treno.
Suo padre aveva deciso di affidarlo ad un istituto, non potendo tribolare ogni giorno per la pagnotta e, insieme, badare a quattro marmocchi con la madre in ospedale.
Erano nella prima fila di sedili in una carrozza composta da un unico ambiente. Flavio sedeva vicino al finestrino per una sua scelta di bambino: era il solo cinema che conoscesse. Suo padre gli stava accanto e, di fronte a loro, c’era una signora con un cappellino scuro sopra una faccia a fiori, cioè quelle coi pomelli bei rossi.
Il padre di Flavio e la signora conversavano fitto: l’argomento era il ricovero del bambino in quella specie di colonia, le cause che lo imponevano e le possibili alternative.
La faccia a fiori lanciava occhiate furtive alle strane scarpe di pezza che completavano, in modo inconsueto, l’abbigliamento classico dell’uomo e che facevano pensare a qualcuno scappato di casa o di prigione che, a volte, non fa differenza. Ma la ragione di quelle scarpe poco decorose era molto semplice: le calzature militari gli avevano inflitto un tale campionario di calli e vesciche che, ormai, reggeva solo quel tipo di scarpa.
In quel periodo c’era stato l’armistizio concordato da Badoglio e i tedeschi ricercavano i militari italiani smobilitati per deportarli nei campi di lavoro in Germania (molti ebbero quel destino).
Con un gran sferragliare, il film sul finestrino di Flavio s’inceppò s’una scena deserta in mezzo a una landa brulla. Ci fu subito un concitato vociferare e un gran trambusto. Nessuno, ovviamente, si preoccupava di spiegare l’accaduto al bambino che capì qualcosa solo quando si spalancò la porta sul lato opposto della carrozza ed entrarono tre militari tedeschi incredibilmente armati. Forse perché le armi accendevano la sua fantasia di bambino, notò soprattutto quelle: in tre, facevano un arsenale. Per sopraffare lo schiamazzo generale, sbraitavano a piena voce i loro ordini che risultavano del tutto inutili dato che non conoscevano una sola parola d’italiano oltre a “documento”.
Invece di controllare i documenti e decidere di conseguenza, i tre armaioli facevano l’esatto contrario. Con krucca efficienza, costringevano gli uomini più prestanti ad alzarsi, li allineavano nel corridoio centrale, poi si facevano consegnare i loro documenti che intascavano.
“Deportazione… Germania… campi di lavoro” era quanto sentiva ripetere Flavio nel vocio generale.
Quando vide suo padre estrarre il proprio documento, gli prese un groppo che lo irrigidì.
Poi lo sentì parlare concitatamente con la signora dalla faccia a fiori: le spiegava dov’era l’istituto che doveva ospitarlo e l’assicurava che “il bambino” era molto sveglio e avrebbe saputo indicarle nomi e indirizzi opportuni. Che gli facesse questa santa cortesia.
Non c’era più tempo e Flavio colse un ultimo sguardo del padre sul suo ciuffo e sul completino, a badare che fosse bene in ordine.
L’agghiacciante addio, sdrammatizzato in quella semplice premura di papà, sciolse il suo groppo in due lacrimoni rotondi.
Uno dei soldati comparve a lato dei loro sedili. A Flavio sembrò eccezionalmente truce, come lo zio Reno e, per quanto possa apparire curioso, gli sembrava molto attratto dalle scarpe di pezza di suo padre. Incurante del documento che questi gli porgeva, guardava perplesso quelle scarpe indegne.
Ma proprio in quel momento, dalla strada sterrata che affiancava la ferrovia cominciarono ad arrivare degli ordini secchi rivolti ai militari sul treno. Ordini sempre più perentori e sferzanti.
A impartirli erano gli ufficiali fermi sulle camionette scoperte e messi a bagnomaria da un improvviso e violento nubifragio. In tutta fretta, i soldati spinsero giù dalla carrozza i quattro sfigati che avevano fatto alzare e se n’andarono.
Poco dopo, a conclusione di una giornata di merda, gli aerei alleati bombardarono proprio quella linea ferroviaria e tutti i viaggiatori, incazzati neri, rincularono verso la stazione di partenza con la locomotiva che sbuffava a marcia indietro.
Quella sera, in famiglia, il padre di Flavio raccontò l’episodio che definiva del diavolo e l’acquasanta, cioè del milite truce e l’acquazzone miracoloso.
Un’anziana coinquilina che veniva spesso a dare una mano in casa, sosteneva con calore la teoria della pioggia miracolosa propiziata sicuramente dai suoi rosari quotidiani e da un misterioso fioretto che riferiva solo a mezza voce.
Dalla sua poltrona di vimini, il nonno di Flavio, che per tutta la vita aveva fatto il trasportatore con carri e cavalli, ascoltava in silenzio. Quando tutti tacquero si accese il mezzo toscano che teneva sempre in bocca e disse la sua idea sul miracolo dell’acqua santa:
«Quando si va a comprare un cavallo da tiro, si guarda subito lo stato degli zoccoli», il nonno aspettò che il mezzo toscano prendesse brace, «così ha fatto quel soldato. Quelle scarpe di pezza e quei piedi piagati non sono buoni per i campi di lavoro».
Seguì un meditato silenzio perché, all’epoca, i bambini non intervenivano nei discorsi dei grandi e l’ipotesi finale, o battuta conclusiva, la pensò e udì soltanto Flavio: “Oppure, Faccia Truce c’aveva i calli pure lui: apposta era truce”.
Fulvio Musso