L’angolo di Full: “Come i fichi dello zio”
Vi proponiamo oggi un’altra chicca del maestro Full tratta dalla sua raccolta autobiografica. Anche qui arguzia e tenerezza sono da lui abilmente mescolate … e condite con un po’ di pepe, che non guasta mai. Prima di lasciarvi in compagnia del suo brano, vi ricordiamo che potete inviarci i vostri racconti seguendo le indicazioni del regolamento di Raccontonweb.
Non conoscevamo nemmeno il malizioso gioco del dottore, ma bastava uno sguardo da sotto le ciglia o un furtivo sfioramento di pelle a farci intravedere un mondo ignoto fatto di pudiche emozioni e di sotterranei turbamenti… Era la mia cuginanza femminile, una fascinosa parentela fra l’amica e la sorella, ma… molto meno sorella. Un delizioso vincolo emerso nei miei brevi periodi di libertà per buona condotta, cioè le provvidenziali vacanze estive fuori dal collegio.
Guardavo come un dio il cugino Francesco, detto Cecòn, che ogni sera andava “a morose” cavalcando una Guzzi rossa con la sella di cuoio borchiata come quella di Tex Willer. Di solito tornava dopo le due di notte a motore e faro spenti. Non tanto per rispettare il nostro sonno quanto per evitarsi, il giorno dopo, i rimbrotti di suo padre, un mio lontano e facoltoso parente che chiamavo zio per devozione e rispetto. Era il solo che avessi mai visto guidare l’auto, il calesse, il trattore e… tutti con l’identica, impeccabile impostazione di guida: un altro dio, come Cecon.
Io dormivo in una stanza adibita, per metà, a deposito delle granaglie da semina. Situata al primo piano, vi si accedeva da una scala esterna in legno. Era l’alternativa estiva alle mie notti tutte uguali, nelle camerate, dove l’aria era fatta di sospiri mentre, fuori, la luna indulgeva ai ragazzi che andavano a morose, come Cecon, e accendeva loro la notte.
Così come quel sole d’agosto accendeva per me giorni nuovi, ricchi di cose semplici e fondamentali quale l’elemento femminile, a insegnarmi che il sesso è un giovane, impetuoso torrente a primavera, e se viene sbarrato da una chiusa, può riversarsi in rigagnoli un po’ equivoci… magari fra i letti delle camerate.
Una notte, Cecòn rientrò prima del solito col motore al minimo ed il faro acceso. Nel superare il piccolo dislivello sotto la mia finestra, il fascio di luce s’infilò sotto le fessure delle persiane illuminando completamente, e per un solo attimo, il locale in cui dormivo.
Sentii un gran trambusto fatto di fruscii e piccoli tonfi come un fuggi fuggi precipitoso. Quando, allarmatissimo, accesi la luce, tutto era perfettamente normale, tuttavia mi fu facile collegare i sacchi di granaglie a torme di sorci famelici. Restai sveglio tutta la notte ben sapendo che non avrei mai osato chiedere allo zio un’altra camera che, fra l’altro, non c’era.
Fortunatamente, la mattina seguente ne parlai a Cecòn che, dopo aver valutato attentamente l’accesso indipendente del locale ed aver verificato eventuali scricchiolii della scala in legno, accettò il baratto con la sua camera che avrei diviso col cuginetto Sandro, suo fratello.
Una sera capitò allo zio di rientrare tardi con l’auto, avendo riaccompagnato in città la figlia sposata. Nel superare il piccolo dosso sotto il deposito delle granaglie, il fascio dei fari illuminò una porta che si spalancava con impeto e una ragazza seminuda che si precipitava, urlando, dalla scaletta. Lo zio, esterrefatto, anziché pigiare il freno, tirò a sè il volante come faceva con le redini del calesse e, per poco, non la metteva sotto.
L’indomani circolavano varie ipotesi sull’accaduto, impastate di grassi sottintesi dei quali, noi ragazzi, ridevamo divertiti oppure incerti come, incerto, appariva il significato di quelle allusioni per le nostre dubbiose cognizioni di adolescenti.
Alcuni avevano parlato di fantasmi, altri attribuivano lo spavento della ragazza a qualcos’altro di mostruoso di cui Cecòn vantava imprese e prestanza. Un anziano prozio, insinuava che, viceversa, la ragazza fosse fuggita per la delusione, come può capitare con giovanotti grandi e grossi come Cecòn, mentre è risaputo che certi piccoletti bassi di sedere offrono il massimo.
Addirittura, qualcuno cominciò a guardarmi “da persona grande” come poteva suggerire quel mio complice, seppure ignaro, scambio di alcova. E le donne, che nulla sapevano sul baratto delle camere, pensarono che la svergognata ignuda provenisse dal mio letto, per cui mi fecero oggetto di ciance e di occhiate del tutto nuove per me. Notai lo sguardo ostile di una cugina, forse gelosa, scoprii le occhiate maliziose di ragazzine che credevo “da prima comunione” e i sorrisetti complici di donne mature che avrei giurato severe e irreprensibili.
Era la mia prima, balbettante lettura dell’arcano animo femminile.
Seppi anche conservare per me e Cecòn la verità sui fantasmi che, in forma di sorci famelici, terrorizzavano gli estemporanei ospiti del deposito. Era questo un altro sentimento che scoprivo per la prima volta e con grande fierezza: quella sorta di complicità, o solidarietà, fra “maschi adulti”.
Diventavo un ometto, crescevo, sia pure… a rate, nei miei brevi periodi di libertà per buona condotta.
Come i fichi dello zio, anno dopo anno, in agosto maturavo.
Fulvio Musso
Povero zio, tra poco gli pigliava un colpo… per questo cercò di frenare…
“Fare i fichi” corrisponde a fare le smorfie,essere leziosi… mi sembra che nel modo o nell’altro tutti i fichi erano giunti alla giusta maturazione ed erano pronti per essere raccolti!
Spassoso racconto…
ciao, Lucia