L’angolo di Full: “Santa Eufrasia”
Santa Eufrasia
Ci fu un periodo nel quale le mie opere letterarie ebbero buona diffusione e notorietà. Non saprei dire con esattezza quanto durò, ma ricordo bene come ebbe inizio.
Il cavalier Resconi, molto più maturo e più importante di me, era un imprenditore commerciale di stazza media nel fisico e nel volume d’affari, ma straripante d’idee, progetti e casini.
Stava lanciando un nuovo prodotto sul mercato e siccome gli ero stato presentato come scrittore (!) mi chiese un nome commerciale ben azzeccato per quell’articolo che lui definiva “soffici veli di cellulosa”, in pratica, della carta igienica.
«Mimosa, l’ovatta di cellulosa!» sbottai. Mi guardò come si guarda al Profeta e accettò entusiasta.
Quella botta di genio mi fruttò solo un pranzo e l’epiteto d’imbecille da parte degli amici secondo i quali, un creativo pubblicitario c’avrebbe succhiato un bel po’ di soldoni mentre io buttavo la Mimosa nel cesso… prima ancora di usarla.
Tuttavia mi gasai molto quando vidi la mia Ovatta di Cellulosa in un minuscolo minimarket di provincia. Quello, per l’appunto, fu il periodo di maggiore notorietà delle mie opere.
Da quel momento mi considerai un autore professionista a tutti gli effetti e apposi “scrittore” sulla targhetta del citofono e nel mio profilo in Face Book. Confidavo nel vulcanico cavalier Resconi che incocciavo di quando in quando e che un giorno mi prese in disparte per comunicarmi di aver ottenuto la licenza per la costruzione di un hotel nel bel mezzo di una landa desolata e bisognava escogitare un modo per riempirlo di clienti. A tale intento mi propose di redigere degli articoli giornalistici –da affidare ad alcune tivù locali– nei quali avrei fatto piangere la statua di santa Eufrasia che addobbava una cappelletta locale. Una santa che, assicuravano i sondaggi del cavaliere, vantava molti più devoti dell’immaginabile.
Lo ringraziai della fiducia, ma rifiutai l’incarico per motivi di etica professionale che, gli dissi, m’imponeva il rispetto della devozione altrui. Restò ammirato della mia correttezza e, per la seconda volta, mi guardò come si guarda al Profeta.
In alternativa a santa Eufrasia, gli proposi un mostro sul tipo Loch Ness dato che, un laghetto, lo si trova sempre, ma questa volta fu Resconi a bocciarmi: «Lei è bravo a scrivere, ma le idee le lasci a me… mi consenta», m’avvertì nel gergo imprenditoriale di Stato, molto in voga.
Non ebbi nemmeno il tempo di rimpiangere le fauci infuocate e le narici fumanti del mio mostro che ricevetti un essemmesse del cavalier Resconi col quale m’invitava a una cena nella sua villa di Arconate dove avrebbe esposto una sua “fantastica” idea.
Vi trovai alcuni amministratori locali e sei belle ragazze discinte delle quali non capivo posizione e ruolo, ma mi spiegarono che ormai, nelle grosse cene d’affari, s’usava così. Del resto, sia gli amministratori che le ragazze, non facevano che assentire… ciascuno a proprio modo.
Il cavaliere attaccò la questione insieme a un gigantesco spiedino di pesce: «Poiché sotto la landa che ospiterà il mio hotel, c’è una discreta falda acquifera, ho deciso di lanciare un’acqua sorgiva, una fonte del benessere. Insieme all’hotel potremo costruire delle piscine terapeutiche e, in seguito, delle vere e proprie terme!».
Ciascuno applaudì –con modalità diverse– l’affare che stava assumendo grosse dimensioni e poteva divenire l’occasione della mia vita. Poiché l’acqua non ha mai fatto male a nessuno, potevo accettarne anche l’aspetto etico. Così, quando ebbi la parola, spiegai che non bastava trovare un nome alla fonte, ma occorreva definirne i benefici terapeutici con relativi opuscoli e saggi, inoltre serviva uno slogan commerciale sul genere “Boario fegato centenario”, ovviamente in meglio. Se il cavaliere era d’accordo, conclusi, mi sarei ritirato per qualche settimana in una località adatta alla concentrazione, per scrivere il necessario.
Dopo che tutti ebbero assentito –ciascuno a proprio modo– il cavaliere si ricompose e annunciò l’insegna che aveva deciso per l’hotel, un nome che gli aveva già portato fortuna: Hotel Mimosa.
Rimasi due mesi al Belvedere di Ischia, a spese del Resconi. Fra bagni, serate danzanti e un paio di flirt, il tempo volò. Ogni tanto ragguagliavo il cavaliere sul buon proseguimento del progetto. Nell’ultima telefonata, però, mi comunicò serenamente che, dell’acqua sorgiva, non se ne faceva più nulla. In compenso, l’Hotel Mimosa avrebbe ospitato dei concorsi letterari: «È un genere molto più economico e, stando ai sondaggi, gli autori piombano come cavallette», mi assicurò il cavaliere, «l’essenziale è premiare tutti. Peraltro, medaglie, targhe e coppe di latta costano una cazzata. In ogni concorso offriremo premi sino al dodicesimo classificato e speciali menzioni per tutti».
Subito mi proposi per scrivere recensioni e intitolare premi, ma l’imprenditore mi bloccò precisando che sono tutte cose senza importanza: «Il solo termine magico è premio letterario: non serve altro, mi consenta».
In pratica mi aveva liquidato. Ma, con vera signorilità, il cavalier Resconi volle riconoscere i miei meriti e, in mio onore, il concorso principale si sarebbe intitolato Premio Mimosa.
È trascorso un anno e le gare letterarie si susseguono innumerevoli con premi a… cascata. Gli autori, ormai, si presentano col petto carico di decorazioni, come certi generali, e con le coppe ben allineate sul lunotto dell’auto.
Escluso dal gioco e legato in modo indissolubile al nome della carta igienica, ne stavo rischiando lo stesso destino di m…
Invece eccomi, nella stessa landa, a dirigere un complesso alberghiero grande almeno il doppio dell’hotel Mimosa e con finalità ben diverse.
È successo che, a seguito dello scellerato, incessante andirivieni che ha distrutto l’incantato, silente eremo di Santa Eufrasia, la sua statua s’è messa a piangere per davvero.
Fulvio Musso