Le scuole di Sassari e Porto Torres si informano sui trapianti
Lo scorso 21 aprile l’associazione sarda di trapiantati Prometeo AITF Onlus ha fatto visita agli studenti del Liceo “D. A. Azuni” di Sassari e il giorno successivo a quelli dell’Istituto di istruzione superiore “M. Paglietti” di Porto Torres. Ad affiancare i trapiantati, per le informazioni di carattere scientifico, sono stati la dott.ssa Laura Mameli, gastroenterologa del Centro trapianti di fegato e pancreas dell’ospedale “G. Brotzu” di Cagliari, e tre medici dell’ospedale “SS. Annunziata” di Sassari: la dott.ssa Paola Murgia, Coordinatrice locale delle donazioni; la dott.ssa Maria Cossu, Responsabile della Nefrologia (e, a suo tempo, del Centro trapianti di rene, ora inattivo); il dott. Francesco Uras, cardiologo con alle spalle un’esperienza al Centro trapianti di cuore di Cagliari. All’Azuni sono, inoltre, intervenuti Alessandro Peralta, infermiere della Rianimazione, e il dott. Fabrizio Demaria, psicologo dell’emergenza.
Oltre che di donazione, gli operatori sanitari hanno parlato di trapianto, fase che si attiva quando il donatore da potenziale diventa effettivo, ossia se gli organi risultano idonei a essere trapiantati, in particolare se non presentano patologie che potrebbero essere trasmesse al ricevente, ha chiarito la dott.ssa Murgia. Il trapianto costituisce la seconda parte di quello che la rianimatrice ha definito un «lavoro di squadra» e che per la dott.ssa Cossu, ex studentessa dell’Azuni, rappresenta «l’altra faccia della medaglia»: «Quando si parla di trapianti, non si parla di morte: si parla di vita. […] In Nefrologia, Gastroenterologia e Cardiologia si attiva un meccanismo di speranza, di gioia, che è bellissimo». Peraltro, ha ricordato, non sempre è necessaria una morte perché avvenga questa rinascita: per il rene e per il fegato si può avere la donazione da vivente (dal genitore, dal coniuge, da un figlio…). Purtroppo, però, in Italia questo tipo di donazione è poco diffusa: ci sono, invece, paesi in qui il trapianto da vivente è molto diffuso, come nel caso della Finlandia dove sono il 40% del totale, ha raccontato.
I pazienti nefropatici – ha spiegato la dott.ssa Cossu – sono relativamente fortunati rispetto a quelli con insufficienza epatica o cardiaca perché hanno sempre un’alternativa al trapianto, costituita dalla dialisi, «anche se è un percorso faticoso». Peraltro, ha precisato, solo il 30-35% dei pazienti in dialisi può essere inserito in lista per un trapianto di rene. Chi ha la fortuna di ricevere un nuovo organo solitamente vede migliorare notevolmente la sua qualità di vita, ma – ha spiegato la nefrologa – «molti pazienti “perdono” il nuovo rene perché si sentono così bene che smettono di seguire con attenzione le prescrizioni dei medici».
Quanto al trapianto di fegato, si tratta di una terapia salvavita, ha subito chiarito la dott.ssa Mameli, spiegando che si ricorre a questo intervento per malattie allo stadio terminale, ossia quando il paziente ha un’insufficienza epatica grave ed è destinato a morire: «Il fegato è un organo in grado di dare la vita, ma se una parte non funziona più, crea complicanze». Tra le malattie che possono portare a questi esiti – ha proseguito – ci sono le epatiti B e C, la cirrosi da alcoldipendenza, l’epatite autoimmune, il tumore al fegato e la steatoepatite non alcolica, causata da un eccesso di grasso nel fegato, che evolve poi in cirrosi. Proprio la steatoepatite non alcolica, legata a stili di vita sedentari e scorretti, è peraltro destinata a diventare la principale causa di indicazione al trapianto, ha precisato la gastroenterologa che, così come la dott.ssa Cossu, ha rivolto ai ragazzi la raccomandazione a condurre uno stile di vita sano e a seguire un’alimentazione sana per evitare diabete, obesità e altri fattori di rischio per quelle patologie che possono compromettere la funzionalità di uno o più organi.
Di norma, ha spiegato la dott.ssa Mameli, è l’epatologo che indirizza il paziente al Centro trapianti, il quale lo valuta e, se riscontra la presenza di determinate caratteristiche, avvia il cosiddetto bilancio, ossia una serie di esami volti a stabilire se possa o meno essere trapiantato. Una delle cause di esclusione, per esempio, è la presenza di tumori ad altri organi: in questo caso, «la probabilità che il tumore peggiori dopo il trapianto è elevatissima» in quanto gli immunosoppressori che il trapiantato deve assumere per tutta la vita possono favorirne l’avanzamento. Se, invece, il bilancio si conclude con esito positivo, il paziente viene inserito in lista attiva per il trapianto. Nel momento in cui è disponibile un organo compatibile il paziente riceve una chiamata e da quel momento ha poche ore per raggiungere il Centro trapianti, L’intervento, ha spiegato la dott.ssa Mameli, ha una durata media di 7-8 ore ed è una procedura molto complessa, mentre la degenza di solito non è lunga: poche ore in rianimazione poi alcuni giorni in semintensiva. Dopo le dimissioni, inizia la fase cosiddetta di follow up, di cui in particolare si occupa lei: è «un percorso di monitoraggio dell’organo e del paziente», che prevede per quest’ultimo una serie di controlli periodici e la necessità di seguire attentamente le terapie prescritte. Per il trapianto di fegato i risultati sono molto positivi: la sopravvivenza dei pazienti è del 90% a un anno dall’intervento e del 70-80% a 5 anni; in più questi trapiantati di norma riprendono a condurre una vita normale e possono anche praticare sport.
A confermare le sue parole sono stati vari trapiantati di fegato, soci della Prometeo: Marco Di Battista, che ha invitato i ragazzi a riflettere sul tema della donazione e del trapianto perché neppure lui aveva mai pensato prima che avrebbe avuto bisogno di un nuovo organo; Rita Botta, che ha ribadito l’importanza per i trapiantati di seguire costantemente le terapie e condurre una vita sana («Cerco di cullare quest’organo come un bambino, perché sono la madre adottiva»); Gianni Sanna, che ha raccontato di essere tornato la persona che era prima del trapianto; Paolo Perra, che ha ribadito l’invito a fare tesoro delle loro testimonianze; Antonello Mura, che ai ragazzi ha raccomandato di godersi la vita e fare di tutto per non arrivare mai ad avere queste malattie che rendono necessario un trapianto.
Lo stesso Centro trapianti in cui opera la dott.ssa Mameli esegue anche il trapianto di pancreas, solitamente in combinazione con quello di rene, in quanto a renderlo necessario è il diabete mellito di tipo 1 che, spesso, causa anche insufficienza renale. La dott.ssa Cossu ha precisato che ormai anche questo trapianto è considerato salvavita perché la qualità di vita dei pazienti diabetici con insufficienza renale è bassa. Rispondendo a un quesito del pubblico, la nefrologa ha poi precisato che il trapianto di pancreas si fa solo quando non funzionano più le cellule che producono insulina, non in caso di tumore. L’iter per questo trapianto, anche nel post-intervento, è simile a quello del trapianto di fegato, ha spiegato la dott.ssa Mameli, aggiungendo che dopo questo intervento il paziente non ha più bisogno di assumere l’insulina. Testimone dell’utilità del trapianto combinato rene-pancreas è stato Antonio Vela il quale, pur avendo tuttora problemi di salute, considera positivo il fatto di non dover almeno più fare la dialisi.
Dei trapianti di cuore ha, invece, parlato il dott. Uras, ricordando innanzitutto che, quando nel 1967 il prof. Christiaan Barnard eseguì il primo trapianto di questo organo, «suscitò grande clamore, seppure già si eseguivano i trapianti di rene, perché si pensava che non fosse possibile trapiantare il cuore». L’intervento, ha raccontato, durò circa 10 ore e coinvolse una trentina di persone, «numeri oggi non più necessari». Questo tipo di intervento, ha poi spiegato, è particolarmente delicato in quanto il cuore deve essere prelevato quando ancora batte e il trapianto deve essere eseguito entro 4-5 ore. La percentuale di persone che rischiano di aver bisogno di un trapianto di cuore, ha affermato, sta aumentando, ma gli organi disponibili restano pochi e solo 1 su 4 dei pazienti in lista di attesa viene trapiantato. Per di più, ha spiegato Uras, a differenza dell’insufficienza epatica, quella cardiaca (esito frequente della cardiopatia ischemica) può avere un peggioramento improvviso. Per tali ragioni accade, purtroppo, che il 6% dei pazienti in attesa di un trapianto di cuore muore entro un anno dall’inserimento in lista. E l’attesa è per tutti piuttosto lunga, ha rimarcato il dott. Uras: a livello nazionale è in media 3 anni, mentre a livello regionale è leggermente inferiore. Con gli attuali farmaci, molti pazienti cardiopatici riescono ad avere «una qualità di vita accettabile», tuttavia, ha aggiunto, quando si manifesta uno scompenso cardiaco refrattario, non rispondono più ai farmaci e non possono più condurre una vita normale in quanto l’affanno impedisce loro di compiere anche le operazioni più semplici, come vestirsi. A questo punto, ha spiegato Uras, le alternative sono due: il cuore artificiale e il trapianto di cuore, che è «l’unica terapia risolutiva perché migliora notevolmente la qualità di vita». L’80% dei trapiantati di cuore è ancora vivo a distanza di 5 anni dall’intervento, ha fatto presente, aggiungendo che, di norma, queste persone possono riprendere a lavorare e le donne possono anche intraprendere e portare a termine una gravidanza. E che questa non sia teoria ma realtà l’ha dimostrato Daniela Medda, trapiantata di cuore 3 anni fa a Cagliari: nonostante di tanto in tanto abbia ancora qualche problema di salute, conduce una vita quasi normale, lavora, pratica sport e a fine giugno parteciperà ai mondiali per trapiantati a Malaga. «Questo è il messaggio: portatelo a casa e nel cuore» ha concluso rivolgendosi ai ragazzi.
Su richiesta di una studentessa dell’Azuni, il dott. Uras ha poi precisato che, perlomeno a oggi, non è possibile ovviare alla carenza di organi ricorrendo a quelli di animali in quanto esiste una grossa differenza tra la specie umana e quella animale dal punto di vista immunologico, per cui è molto alto il rischio di rigetto. A questo problema, poi, si aggiunge il rischio che, attraverso l’organo, siano trasmessi al paziente virus o parassiti presenti nell’animale. Per quanto riguarda il rigetto, invece, su richiesta di un’altra studentessa, la dott.ssa Mameli ha chiarito che per il trapianto di fegato «la diagnosi di rigetto non è frequente: accade per 2 pazienti su 10» ed «è difficile che si verifichi un rigetto non trattabile con gli immunosoppressori, in particolare il cortisone». Per di più, ha aggiunto, a distanza di anni dal trapianto, la percentuale di rigetti, perlomeno nel loro Centro trapianti, «è bassissima: 1-2%», anche grazie all’aderenza dei pazienti alle terapie. Tutt’altro quadro, invece, per il rene: la dott.ssa Cossu ha spiegato che questo «purtroppo è l’organo che ha il maggior numero di rigetti per via della sua complessità». Infatti, questo tipo di trapianto «dal punto di vista tecnico è il più semplice, ma è il più complesso dal punto di vista immunologico perché l’organismo tende a “rifiutare” come estraneo il nuovo rene». Per di più, spesso «il rigetto è subdolo, non dà febbre alta», quindi non si manifesta. Tra le cause, ha spiegato, c’è anche il fatto che, come già accennato, il paziente dimentica di assumere la terapia con regolarità perché si sente bene. Fortunatamente, però, con le nuove terapie la percentuale di rigetto acuto si è ridotta al 10-20%, ha aggiunto.
Durante l’incontro con gli studenti dell’Istituto Paglietti di Porto Torres si è, inoltre, parlato di sport… dopo averne anche praticato. La mattinata, infatti, è stata aperta da tornei di pallavolo, palla tamburello e calcio a 5. Durante il dibattito con gli studenti, invece, è intervenuto Marco Pinna, consigliere regionale del Comitato italiano paralimpico (CIP), responsabile regionale del settore scuola del CIP e coordinatore provinciale dell’Ufficio scolastico regionale. Pinna si è dichiarato fermamente convinto della capacità della scuola di veicolare non solo insegnamenti didattici ma anche civili e sociali, quali l’importanza di praticare sport o di donare il sangue e gli organi. Un compito nel quale, tuttavia, a suo parere non sembrano credere le istituzioni e i loro vertici politici. A mostrare come lo sport consenta anche di superare le barriere è stata, invece, la 19enne Beatrice, una delle giocatrici della squadra di basket in carrozzina GSD Porto Torres. Beatrice ha annunciato che il prossimo 13 maggio la sua squadra disputerà, per la prima volta in 20 anni di attività, la finale del campionato di serie A, per cui ha invitato chi ne ha la possibilità ad andare a vederli o almeno a seguire la partita in tv. E non c’è dubbio che saranno in tanti, in Sardegna, a tifare per loro.
Foto Prometeo AITF Onlus
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