“Le sette biciclette di César” e l’amara dolcezza di Sebastiano Gatto

Le sette biciclette di César di Sebastiano Gatto

Le sette biciclette di César di Sebastiano Gattodi Marcella Onnis

Le sette biciclette di César” di Sebastiano Gatto è un bell’esempio di come un incipit possa essere ingannevole. Chi si aspetterebbe, infatti, che un libro che esordisce chiamando in causa un gruppetto di nutrie possa rivelarsi così raffinato? Forse qualche animalista dirà che sì, si poteva immaginare perché le nutrie sono tanto carine e bla bla bla, ma io non l’avrei detto, posto che, riguardo a queesti animali, sono di tutt’altro avviso. Tuttavia, l’elegante mise scelta da Amos Edizioni e il commento di Tiziano Scarpa riportato sulla quarta di copertina già mi avevano dato indizi in tutt’altra direzione, quella giusta.

Ho usato prima l’aggettivo “raffinato” per cui mi affretto a precisare che non deve essere inteso nel senso di snob: seppure, infatti, il romanzo contenga varie citazioni colte e riferimenti magari ignoti al lettore medio – o, perlomeno, a me – non dà l’idea di una scrittura spocchiosa a vocazione elitaria. È raffinato perché è colto, delicato e sobrio. Tanto tale da rendere rilevanti e poetici persino elementi assolutamente prosaici come le nutrie, per me, e i bidoni dei rifiuti, per tutti, almeno credo: «Ciascun bidone, a seconda che stia in una curva, in una strada stretta, a seconda che la via sia malfamata o rinomata, detta ai netturbini cosa fare. Il bidone dell’immondizia è lo spartito che, se sai leggere, ti racconta l’anima di Mestre e dei suoi abitanti. Da quel che la gente getta in questo o quel bidone, in questo o quel giorno della settimana, capisci chi è, cosa fa, quanto guadagna. Ogni giorno la stessa mappa del quartiere si arricchisce di qualche dettaglio, di qualche conoscenza. Proprio come una messa, perfettamente uguale a se stessa per permettere a chi vi partecipa di concentrarsi esclusivamente sulla propria performance e in quell’immobilità, comunque, avanzare. Da un bidone sai se è estate o inverno, se sono giorni feriali o di festa: dal tuo bidone, il netturbino sa cosa pensi».

Incanta subito la scrittura di Sebastiano Gatto – perlomeno se, come me, si apprezza questo tipo di sensibilità – ed è capace, in sole 76 pagine, di schiudere le porte di un mondo che 760 pagine non potrebbero raccontare meglio. Si può, però, anche restare intimoriti da questa storia se da subito – magari già leggendo la presentazione di Tiziano Scarpa – si ha la certezza che ci si riconoscerà un po’ troppo nel suo protagonista e che quest’immedesimazione non sarà indolore.

Secondo lo stesso protagonista, quella narrata è la «vita di un senza talento» senza «disastri né miracoli», l’esistenza di un uomo che, anche in un momento critico, non agisce e sceglie, invece, di aspettare perché, confessa, «quella era l’unica cosa che sapevo fare». Anche la non azione, però, produce conseguenze, come scoprirà a suo danno.

Scrivo di questo romanzo troppo amaro per definirlo malinconico e, intanto, mi balena un interrogativo: ma il nome di quest’uomo viene indicato? Sfoglio le pagine, mi soffermo su quelle che penso potrebbero contenerlo e non lo trovo. A ben guardare, comunque, ha poca importanza essere precisi su questo punto: fosse anche indicato, il mio non averlo tenuto a mente è segno che l’autore è riuscito nel suo intento. Quello, cioè, di ritrarre un uomo probabilmente destinato a non lasciare traccia nei pensieri e ricordi altrui per essersi «lasciato vivere addosso la vita, […] fatto scivolare via la vita degli altri». Oppure – ma a pensarci bene l’ipotesi non è alternativa – non ne ricordo il nome perché lui potrei essere io o tu che leggi me o colui/colei che ha letto o leggerà questo romanzo, ritrovandoci se stesso. E ciò significa anche che almeno tutti noi appena citati, in realtà, di lui ci ricorderemo eccome e, con questo ricordo, ci porteremo dietro un senso di sconforto, forse pure di sconfitta e di timore.

Non so, quindi, dirvi se per noi leggere “Le sette biciclette di César” di Sebastiano Gatto sia effettivamente una buona idea. Posso solo lasciarvi con un interrogativo preso in prestito da questo fragile ma per me amabile personaggio. Un interrogativo che – non so bene perché – ha un che di lenitivo e rassicurante (dunque, sempre-caro-Matteo, non sentirti in colpa per avermi messo in mano questo romanzo): «Saremmo in grado di sopportare una vita fatta solo di ore “da vivere”?».

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