Le virtù taumaturgiche di scrittura e risata secondo De Silva e Malvaldi

De Silva, Bitasi e Malvaldi

De Silva, Bitasi e Malvaldidi Marcella Onnis

Metti insieme Diego De Silva, Marco Malvaldi e Simonetta Bitasi: può uscirne fuori qualcosa che non sia brillante? No! Infatti, è stato esattamente tale l’incontro che, giovedì scorso, li ha visti insieme a Mantova, sul palco di Palazzo Ducale, nell’ambito della XXI edizione di Festivaletteratura,

Simonetta Bitasi è stata abile nell’individuare i punti in comune tra i due autori: l’aver inventato personaggi seriali; l’essere particolarmente bravi in ciò in cui è facile fallire, ossia nel costruire i dialoghi; il saper essere seri divertendo. Più un’altra importante caratteristica: «Occupandovi di commedia, raccontate il Paese nella sua quotidianità. Tribunale e bar in qualche modo sono già microcosmi basati sulla parola». È soprattutto sui personaggi seriali, però, che la moderatrice dell’incontro ha scelto di soffermarsi perché «s’innestano molti meccanismi tra lettori e scrittori quando ci sono questi personaggi». De Silva ha affermato di non sapersi spiegare i motivi per cui il suo avvocato Malinconico piace al pubblico, visto che «è un avvocato di insuccesso». In realtà, lui un’idea ce l’ha e sicuramente coglie nel giusto: «Il lettore si identifica con lui» perché «il disagio è uno dei modi di stare al mondo» (Sappiate che questa affermazione diverrà uno dei miei motti ispiratori). Quando, però, un personaggio seriale conquista il pubblico, per l’autore può esserci una seccante contropartita che è il venir identificato con la sua creatura, come De Silva ha toccato con mano. Scegliere di dare vita a una serie, dunque, ha i suoi pro e i suoi contro; ne è consapevole pure Malvaldi: «Dal lettore ti senti in qualche modo responsabilizzato». In più, c’è «un rischio mostruoso: scrivere un libro di troppo. Io l’ho già fatto con “Battaglia navale”, che è un libro orribile, per cui adesso sono tranquillo: posso riprendere a scrivere». Poi, tornando serio, ha aggiunto che «c’è un tempo per scrivere e un tempo per non scrivere» e che «lo scrittore ha un vantaggio che non deve mai scordare: il proprio lavoro lo può buttare via».

Diego De Silva a Festivaletteratura 2017Tornando al successo di Malinconico, è sicuramente vero quanto “confessato” da un lettore presente all’evento: questo avvocato un po’ sfigato piace perché «dice cose che pensiamo, ma che non abbiamo mai avuto il coraggio di dire». «Questa è una delle motivazioni per cui scrivo: avere il tempo di dare la risposta giusta» ha commentato De Silva, che ha ricordato di aver già fatto coming out nelle pagine di “Mia suocera beve”, per poi ulteriormente argomentare tale affermazione: «La letteratura ricompone illusoriamente questo tempo (naturalmente è un esercizio di impotenza). La letteratura non serve. Ciascuno di noi, quando legge un libro, riceve qualcosa che non è spendibile, misurabile. Ciò che è utile è utile sempre ad altro ed è logico che questa catena si arresti davanti a qualcosa che ha valore in sé: la bellezza». Ed è proprio per questo valore in sé che, a suo parere, vale la pena complicarsi la vita con la letteratura. Un’altra ragione che – ha affermato – potrebbe spingerlo a scrivere è «il senso di colpa che mi accompagna sempre»: nella scrittura «c’è una componente artigianale che è meravigliosa: scrivendo capisci cosa pensi. Il rapporto tra autore e parola è un rapporto di scoperta». Per cui accade anche che, pur non essendo utile, «certe volte dare un senso al dolore, ricomporre quel che è accaduto, ha un valore in sé».

 

Marco Malvaldi a Festivaletteratura 2017Anche da Malvaldi sono arrivate parole rassicuranti: quelli che trovano la risposta giusta al momento giusto sono «personaggi solo letterari» e «in questo la letteratura di intrattenimento svolge un ruolo particolarmente consolatorio. Capisci che quello che leggi esiste perché nella vita reale capitano ad altri le stesse cose che capitano a te. Crea un sentimento di empatia e la consapevolezza che per gli esseri umani i problemi sono sempre gli stessi». Un meccanismo che, ha rimarcato Bitasi, è quello tipico dell’umorismo che, però, per Malvaldi va distinto dall’ironia: «Ironia significa “rido di te”; umorismo significa “rido con te”». In ogni caso, chi sceglie questi registri deve stare in guardia perché – ha evidenziato Malvaldi – «ogni volta che usi come archetipo umoristico una persona o situazione è inevitabile che ci saranno persone che non ne rideranno affatto, perché sono dalla parte di chi “ha perso”. Ciò non è necessariamente un male: la vita, per molti versi, è un aspetto statistico». Ragion per cui, inoltre, «si corre inevitabilmente il rischio che una persona perfettamente di fantasia corrisponda a una persona perfettamente reale». Paradossalmente, invece, «molto spesso le persone reali non si riconoscono per come le descriviamo». Questi rischi, comunque, non lo portano ad abbandonare lo stile umoristico perché «ridere è un tratto peculiare dell’uomo che rivela che ha capito ed è in grado di passare oltre. Sono convinto che ridere sia un feedback positivo esattamente come provare dolore: sono tutte risposte che diamo quando qualcosa va in modo diverso dalle nostre aspettative». Alla sua stessa filosofia aderisce De Silva: «Adoro i libri che mi fanno ridere perché sono difficilissimi da scrivere. La verità ci fa ridere ed è un controsenso perché 9 volte su 10 la verità è un dramma. Ma se ridi, capisci che non è così drammatica. La risata è una specie di suggello dello sfacelo della comprensione dell’attimo» (Questa considerazione non sono certa di averla capita, ma suona pregna di significato e, appunto, verità, per cui ve la riporto). Dietro l’opera che sa far ridere – si tratti di un libro, di uno spettacolo teatrale o altro – ci sono un autore, il suo bagaglio di conoscenze e di esperienze di vita, un’idea, un progetto… – ha rimarcato De Silva – per cui «nell’attimo in cui ridiamo ci prendiamo un capitale. E nel momento in cui lo acquisiamo, ci modifica».

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