Lingue per sopravvivere, lingue per dividere: la parola ad Aramburu e Čolić
Domenica 10 settembre 2017 si è svolto a Mantova il 49° e ultimo incontro del Vocabolario europeo, ciclo che per 10 anni è stato proposto al Festivaletteratura. Il gran finale ha visto protagonisti Fernando Aramburu, che ha parlato della parola spagnola “soledad” (solitudine), e Velibor Čolić, che ha presentato la parola bosniaca “mir” (pace). Imprescindibile, però, l’apporto di Giuseppe Antonelli, nelle vesti di moderatore, e delle interpreti Giovanna Melloni (la cui bravura mi era già ben nota) e Chiara Gandolfi (che ha estasiato tutti per la scioltezza con cui, seguendo Čolić, è passata dal francese al bosniaco).
Come prima domanda, Antonelli ha chiesto ad Aramburu di parlare del rapporto tra patria e lingua: «Da più di trent’anni vivo in Germania e parlo quotidianamente il tedesco, ma la lingua della letteratura continua a essere lo spagnolo perché non ho l’istinto della lingua: mi sembra di suonare il piano con i guanti. È una situazione che condivido con altri scrittori, determinante per il mio lavoro e ha a che vedere con la parola che ho proposto: solitudine» ha riposto l’interessato. Poi, ha proseguito spiegando quale concetto per lui racchiuda questo vocabolo: «Solitudine ha una connotazione negativa, ma io ho pensato a una connotazione positiva. Penso che la Natura ci abbia dotati della capacità di star soli. Quando, per esempio, ci sdraiamo a letto nella nostra stanza e ci ritiriamo dal mondo in questa solitudine è quello che io amo: un ambito umano di serenità, una situazione creativa. Questo aspetto positivo della parola lo vedo proprio nel suo suono in italiano, spagnolo, tedesco: è una parola lunga, che si pronuncia con una certa lentezza. Ho bisogno ogni giorno di un po’ di tempo per stare in silenzio e parlare con me stesso».
Anche Čolić è un emigrato: rifugiatosi in Francia dopo l’esplodere della guerra in Jugoslavia, da diversi anni scrive in francese.
L’autore bosniaco ha subito chiarito che «“viaggiatore” è diverso da “rifugiato”; “turista” è diverso da “rifugiato”»: «il viaggiatore non necessariamente parla la lingua del Paese in cui si trova; il turista visita un posto nel weekend e il lunedì mattina rientra a casa; il rifugiato rimane. Immaginate che resta e non capisce niente. Peggio se è un rifugiato bosniaco come me, povero e talvolta musulmano. Fa varie cose contro sé stesso e pensa che la battaglia comincia lì: apprendere per rimettersi in piedi, ricominciare; imparare la lingua per restare un uomo. Il rifugiato ha forse il diritto di dire al mondo che rallenti per lui? No! Deve accelerare con il mondo. Io non potevo permettermi di cadere un’altra volta». Parole che mi hanno fatto ripensare a quanto affermato da Domenico Quirico al festival L’Isola delle storie di Gavoi riguardo al migrante che, cominciato il suo viaggio, «non è più lui quello che era». Čolić ha, dunque, dovuto adottare un’altra lingua; del resto, ha fatto presente, «noi, in Jugoslavia, anche prima della guerra dovevamo scegliere una “grande lingua”». Quanto al suo rapporto con il francese, sua lingua adottiva, l’ha reso con un’efficace metafora: «Per me il francese è un appartamento in affitto: so che non è mio, ma faccio come se lo fosse. Parlo e scrivo in francese, ma sono apolide. Mi sento uno degli ultimi jugoslavi, una delle specie in via d’estinzione». E quanta amarezza ci ha rivelato questa sua amabile autoironia…
Rivolgendosi di nuovo ad Aramburu, Antonelli gli ha domandato come mai, lui che è basco, avesse scelto una parola castigliana e questi ha così risposto: «Lo spagnolo è la mia lingua madre e per molti anni è l’unica che ho padroneggiato, ma da giovane parlavo la lingua spagnola con molte interferenze basche. Non senza difficoltà e angoscia ho fatto qualcosa di cui ora sono contento: reimparare la mia lingua studiando la grammatica, liste di vocaboli… E quest’ansia non l’ho mai persa: si è accentuata quando a 25 anni mi sono trasferito in Germania. Riuscivo a parlare tedesco solo con mia moglie».
Se ammirevole – e da imitare – è la serietà con cui si approccia alle lingue, compresa quella madre, altrettanto apprezzabile è la sua visione sull’argomento: «Non ho mai avuto la percezione che debba esserci un conflitto tra le lingue, che sono tra i principali tesori che hanno gli esseri umani. Dovremmo averne cura, insegnarle nelle scuole. Il basco rischia di scomparire: sarebbe una tragedia perché la lingua ha a che fare con l’identità delle persone». «Per 8 anni, mentre imparavo il tedesco e reimparavo la mia lingua, questo mi ha protetto dalla noia e mi ha convinto che l’apprendimento non deve finire a scuola né all’Università. Dovremmo continuare a imparare fino all’ultimo istante della nostra vita per incrementare la qualità delle persone» ha affermato, per poi aggiungere di avere «grande speranza nella Cultura. In generale, ci rende migliori: più ricchi, più ricettivi, più comprensivi».
Antonelli ha, quindi, rimarcato come Aramburu incarni «il sogno europeo del trilinguismo, in cui ogni cittadino parla la sua lingua madre, una lingua veicolare e una terza lingua di adozione, che cioè sceglie di imparare», Questo bellissimo sogno di «rispetto e conoscenza delle differenze linguistiche per creare dialogo, colloquio, fratellanza», però, sembra sempre più somigliare a un’utopia. Anzi, già in passato ha dimostrato la sua, purtroppo, scarsa fattibilità: in Jugoslavia, infatti, proprio la lingua è diventata motivo di conflitto, ha ricordato Antonelli, precisando che quella ufficiale era il serbo-croato ma che, con l’esplodere della guerra civile, si è cominciato a insistere sulle differenze tra l’uno e l’altro idioma, così che «il serbo-croato è esploso in tante lingue diverse». «Ma sono veramente tante lingue diverse?» ha domandato a Čolić. Questi ha raccontato di aver concluso gli studi nell’anno accademico ’89-’90 e che «nel ’91 la lingua che avevo studiato è scomparsa. Sono diventato un T-Rex linguistico!». Poi, facendosi di nuovo serio, ha affermato che «la lingua è politica, è potere. In Jugoslavia c’erano diversi poteri e il comunismo ha creato una lingua di maggioranza: il serbo-croato. Vivevamo bene, mangiavamo bene e giocavamo un ottimo basket. Alcuni dicono che la Jugoslavia sia crollata per consentire all’Italia e alla Spagna di vincere ogni tanto a basket». Mentre ancora ridevamo, però, Čolić ha di nuovo cambiato registro (cosa che fa con la stessa naturalezza con cui passa dal francese al bosniaco): «Il serbo-croato era la lingua in cui ci amavamo e sognavamo. Era la lingua comune. Ora si chiama “serbo-croato”, “croato-sloveno”, “serbo-croato-montenegrino-bosniaco”… ma noi persone “normali” la chiamiamo ancora “la nostra lingua”. Non ho mai conosciuto persone che si odino tanto per la lingua come gli jugoslavi. E mai i linguisti e il popolo sono stati interpellati nelle scelte linguistiche: hanno sempre deciso i governanti, prima i comunisti, ora i neofascisti. La grande tragedia della Jugoslavia è stata questa battaglia linguistica». «Purtroppo le lingue restano confini e frontiere» ha chiosato Antonelli, aggiungendo, però, che «noi qui proviamo a superarli».
Davvero a malincuore ho dovuto abbandonare qui questo istruttivo e toccante incontro per seguirne un altro. Nel mio resoconto manca, pertanto, il passaggio in cui Čolić ha spiegato cosa sia racchiuso nella parola “mir”, che non significa solo “pace”. Fortunatamente per me e per voi, comunque, da gennaio sul sito di Festivaletteratura saranno disponibili i video di tutti gli incontri della XXI edizione.