L’ULTIMO ATTO DI BONTÁ DI DON CARLO GNOCCHI

di Ernesto Bodini (giornalista e biografo)

 

Immani produzioni editoriali e infinite pagine di articoli hanno caratterizzato in questi decenni la figura e l’opera di don Carlo Gnocchi (1902-1956), per tutti il “papà” dei mutilatini e dei poliomielitici, e pioniere della donazione di cornee che hanno ridato la vista a Silvio Colagrande e Amabile Battistello. Un benefattore dell’umanità sofferente che a dieci anni dalla sua beatificazione: il 17 gennaio la pubblicazione del decreto e il 25 ottobre la cerimonia in Duomo a Milano, vorrei ricordare con la cronaca di quella giornata particolare (tratta dai documenti ufficiali della omonima Fondazione e ripresa da uno speciale del periodico “Oggi” del febbraio 2016), ovvero quando si spense alla clinica Columbus il 28 febbraio e gli furono prelevate le cornee quale ultimo atto di generosità, nonostante la legge italiana non lo consentisse, e neppure la Chiesa si era ancora espressa a favore dei prelievi di organi a scopo di trapianto terapeutico. Il doppio intervento di trapianto di cornee fu eseguito dal prof. Cesare Galeazzi (1905-1979), direttore del Pio Ospedale Oftalmico di Milano (oggi Fatebenefratelli). Il clinico era venuto a conoscenza dell’impegno caritatevole di don Carlo leggendo un articolo di giornale, dove veniva citato l’illustre prof. Streiff, clinico oculista di Losanna e suo amico, che aveva gratuitamente operato due bambini dell’opera di don Carlo. Questa notizia indispose il prof. Galeazzi, che scrisse immediatamente a don Gnocchi dicendogli che si sentiva offeso, come riporta nel suo diario: «Lei, reverendo – lo apostrofò –, ha intrapreso una bellissima fatica, ma si dimentica evidentemente che gli oculisti italiani, senza falsa modestia, in tema di chirurgia oculare non sono inferiori ai loro colleghi esteri». Si mise a disposizione di don Carlo e della sua opera. La risposta del sacerdote non si fece attendere e due giorni dopo si incontrarono di persona per collaborare.

 

Il diario del prof. Galeazzi (nella foto) annota anche la cronaca dei momenti che precedettero l’operazione: «Improvvisamente, una domenica, le 2 del pomeriggio, suona il telefono. Era una suora della clinica Columbus: “Professore venga subito, don Carlo ha chiesto di lei”. Quando lo vidi, lui giaceva nel letto, sotto la tenda ad ossigeno, il viso esangue, le belle mani stanche e bianche». “Cesare, ti chiedo un grande favore, non negarmelo: fra poche ore io non ci sarò più: prendi i miei occhi e ridona la vista a uno dei miei ragazzi, ne sarei tanto felice. Parti subito per Roma: là nella mia casa c’è da pochi giorni un bel ragazzo biondo e poi forse anche un altro, mi hanno detto che un trapianto di cornee potrebbe farli rivedere: avrei già dovuto parlartene, parti subito, promettimelo, io ti ringrazio. Addio…”. Quello del dodicenne Silvio Colagrande era un caso molto difficile, ma ancora nei limiti dell’operabilità. Poco prima di rientrare a Milano, il professore ha notizia della morte di don Carlo. Durante il viaggio, è preoccupato per l’intervento. A tratti, si rasserena e dice: «Don Carlo mi aiuterà». Per il secondo trapianto era pronta una giovane ragazza, Amabile Battistello, di 17 anni. «Arrivo in ospedale, vedo i giornalisti fermi all’ingresso e li evito entrando dall’ambulatorio. La camera operatoria è pronta: vi è un silenzio particolare, è una giornata diversa. L’induzione, l’anestesia… “Può cominciare professore…”, la voce amica di Laura, la mia anestesista. Sono sereno: i tempi preliminari evolvono senza complicazioni e arriviamo al momento cruciale. Un attimo, ma solo un attimo di commozione: ho nelle mani e ancora fisso l’occhio azzurro di don Carlo che non c’è più. Ma mi aiuta, la mano non trema, il giro di trapano è sicuro». L’operazione riesce. L’insediamento della cornea donata risulta facile: la pupilla è centrata, il cristallino perfettamente trasparente. Il ragazzo vedrà. E anche il secondo trapianto riesce senza complicazioni. Quell’evento che di li a poco scosse l’opinione pubblica, un significativo contributo alla cultura della donazione degli organi.

 

 

E qui termina, sia pur in sintesi, la testimonianza del prof. Galeazzi, ma qui inizia anche la storia della donazione e dei trapianti. Infatti, in seguito al famoso gesto di don Gnocchi e sotto l’influsso della commozione suscitata dalla stampa, nello stesso mese di marzo, durante un’udienza all’Associazione italiana dei clinici oculisti e dei medici legali, papa Pio XII approvò, citando l’esempio di don Gnocchi, il trapianto di organi, mettendo fine alla discussione sulla liceità morale. Qualche anno dopo, la stessa legislazione italiana si adeguò a questa nuova frontiera della medicina e della vita con la legge sul trapianto renale (458/1967), dando così inizio a quel movimento di opinione e sensibilizzazione che sfocerà nella fioritura delle molteplici realtà legate alla donazione. L’estremo saluto a don Gnocchi avvenne il primo marzo in Duomo che si trasformò in un’apoteosi grandiosa per partecipazione e commozione: una moltitudine di suoi mutilatini, venuti dagli 8 collegi della Pro Juventute, quattro alpini a sorreggere la bara, altri a portare sulle spalle i piccoli mutilatini in lacrime; poi la commozione degli amici e conoscenti; 100 mila persone a gremire il Duolo e la piazza; l’intera città di Milano listata a lutto. Tutti i testimoni ricordano che correva per la cattedrale una specie di parola d’ordine: «Era un santo; è morto un santo». Durante il rito, fu portato al microfono un bambino. Disse: «Prima ti dicevo: ciao don Carlo. Adesso ti dico: ciao, san Carlo». Ci fu un’ovazione. La stessa (in forma di applausi di manifestata riconoscenza) che dieci anni fa veniva proclamata la sua beatificazione, l’ultima tappa per la strada della Santità a protezione dei suoi assistiti, oggi adulti e padri di famiglia (compreso chi scrive). E ricordarlo ancora, è un nostro dovere di riconoscenza… e un esempio da imitare!

Nella foto in basso S. Colagrande e A. Battistello dopo l’intervento
Le foto sono a cura della Fondazione Pro Juventute

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