Il mobbing, un “nemico” da combattere: a volte basta volerlo
Un fenomeno di grande rilevanza sociale, in continua ascesa, che merita di essere meglio conosciuto (sia pure in sintesi) per prevenirlo o affrontarlo. Il “segreto” di una soluzione non sempre è l’azione legale, a volte sono sufficienti una buona cultura e una grande determinazione… senza ripensamenti.
di Ernesto Bodini
(giornalista scientifico)
Se ne parla da molto tempo ormai di vessazioni e soprusi sul posto di lavoro, fin troppo ma non abbastanza per capire quali sono le cause che originano il fenomeno definito “mobbing”. Ma cosa significa esattamente questo termine, moderno, ormai diventato purtroppo di moda? E quanti sanno di cosa si tratta e magari ne sono coinvolti? È una parola che deriva dal sostantivo “mob” che in inglese significa “folla disordinata, rumorosa e aggressiva”, e in tedesco “plebaglia” o “branco”, nell’accezione sociologica con cui questo termine viene usato in italiano. In pratica sta ad indicare tutte le sopraffazioni, le violenze gratuite di tipo psicologico (e non sempre sono i superiori a metterle in atto) che molte persone devono sopportare soprattutto sul posto di lavoro, sia in ambito pubblico che privato e in quasi tutti i settori.
Il mobbing può essere orizzontale, ossia quando la persecuzione è diretta contro un pari grado, all’interno di un ambiente relativamente chiuso; verticale dal basso verso l’alto della gerarchia; o viceversa, dal basso, quando per esempio un docente viene “bersagliato” e delegittimato dagli allievi, o un dirigente dai suoi dipendenti. Molto più frequente (secondo Sandra Carrettin e Nino Recupero, autori della pubblicazione “Il mobbing in Italia. Terrorismo psicologico nei rapporti di lavoro”) è il mobbing verticale dall’alto: nel caso di un ambiente gerarchico dove i superiori scatenano l’ostracismo contro un dipendente che per una qualsiasi ragione è diventato scomodo. Questa forma di mobbing viene chiamata tecnicamente “bossing”.
Si tratta di una vera e propria patologia sociale le cui cause sono molteplici che vanno dalla flessibilità alla ristrutturazione in ambiente lavorativo, e a mio parere, dal modo di intendere i rapporti umani, sempre più negativo in qualunque contesto sociale… e che in Italia pare essere molto diffusa: oltre un milione di lavoratori (ma la cifra è probabilmente sottostimata). Ma a parte le cifre chi, in particolare, e colpito da mobbing? Sicuramente chi dimostra maggiore professionalità, chi denuncia guasti e ritardi nell’organizzazione aziendale del lavoro, chi propone interventi e soluzioni (regolarmente respinte), chi acquisisce una professionalità o un grado culturale tanto da evidenziare (sia pur indirettamente) debolezze, inefficienza, ingiustizie… e reati nei vari gradi gerarchici. Un paradosso? Sembrerebbe di si, ma questa è la realtà, oltre a sottomettere i cosiddetti coloro che non sanno o non hanno il coraggio di reagire…
Tutte queste ed altre situazioni provocano tensioni, stati d’ansia, paure e condizioni di stress che con il passare degli anni diventano insopportabili tanto da causare nei soggetti “più deboli” una condizione patologica di competenza medico-psicologica e/o psichiatrica e magari anche legale. Per quanto riguarda le responsabilità il Dlgs 38/2000 sul danno biologico e il suo risarcimento economico ribadisce le responsabilità penali del datore di lavoro, che dovrebbe pagare di tasca propria quanto commesso o tollerato. A questo riguardo la Cassazione, con la sentenza n. 16148, ha accolto il ricorso di due impiegati che per quasi dieci anni hanno subito minacce, aggressioni, lesioni personali da parte dei colleghi (ma il datore di lavoro non ha fatto nulla per aiutarli nonostante le richieste), delineando anche una responsabilità del datore di lavoro, che non aveva vigilato sul comportamento dei dipendenti che vessavano la coppia. Il tribunale ha riconosciuto che per la prescrizione del reato non conta la data di inizio delle minacce ma la data della sentenza che proscioglieva i colleghi.
Ma come provare la persecuzione e le relative responsabilità? Indubbiamente in molti casi non è sempre facile. Oltre a dover dimostrare con prove concrete quanto si è subìto (dichiarazioni verbali e scritte, testimonianze di colleghi, eventuali registrazioni, etc.) ritengo molto importante che la persona colpita da mobbing (gravi ricatti “non dimostrabili” a parte) sia dotata di una forte determinazione e costanza nel perseguire i propri interlocutori responsabili della sua condizione psico-fisica. Ma è altrettanto importante raggiungere un grado culturale (e magari anche giuridico, per quanto possibile) che può essere di grande sostegno per “spiazzare” in alcuni casi certi arroganti e despoti, evitando spiacevoli e lunghe, oltre che costose, azioni legali, mentre sarebbe sufficiente (almeno inizialmente) fare una formale diffida e/o denuncia cautelativa, impostandola in un certo modo senza il timore di eventuali ritorsioni…
Sul territorio sono oggi presenti associazioni e patronati (oltre naturalmente a studi legali), e chi scrive si rende disponibile a livello no-profit per utili e pratici consigli, per meglio inquadrare il problema e come affrontare quello che ritengo poter definire un “avversario” indegno nel mantenere un rispettoso rapporto umano (sia esso il proprio datore di lavoro, collega od altro destinatario). La legislazione e le sentenze non mancano ma molto dipende anche da tutti noi, anche se in molti casi si perpetua quanto sosteneva Alessandro Manzoni (1785-1873): «Noi uomini siamo fatti così: ci rivoltiamo sdegnati contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi».
Caro Ernesto, come non concordare su questo finale? Non smettiamo, però, di credere che qualcosa possa cambiare, magari anche grazie alla tua riflessione e ai tuoi consigli, che saranno senz’altro di conforto, coraggio e aiuto alle vittime del mobbing