Musica, Palermo: i “Kaiorda” si preparano a un’estate sul palco
È la Giornata Mondiale del Commercio Equo e Solidale, e nel bel mezzo di uno dei mercatini mattutini allestiti a Palermo, dietro il secolare Palazzo Steri, alcuni musicisti dei Kaiorda si consultano per decidere se tenere o no il concerto. Il gruppo elettrogeno è saltato, ma alcuni componenti della band non si danno per vinti, insistendo per un concerto acustico. Poi, di comune accordo, ritengono più opportuno rimandare, perché la gente che cerca refrigerio sotto i gazebo, assaggia cibi a km zero e si informa sul referendum contro il nucleare sembra proprio essere il loro pubblico ideale, quindi meglio fare le cose per bene.
Così, ripongono a malincuore gli strumenti: il flauto traverso della friulana Bruna Ferraro, il basso acustico e il fretless di Massimo Provenzano, il bouzouky e la chitarra barocca del pink floydiano Paolo Carrara. Mentre qualche fan acquista il loro ultimo cd, Safar, autografato sul posto dalla cantante del gruppo Emanuela Fai, noi abbiamo l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con Claudio Arena, curatore dei flauti dritti e membro storico del gruppo.
Fiero del loro lavoro, disponibile e gravido di informazioni, Arena fa spallucce quando gli si fa notare che i Kaiorda stanno su internet in modo un po’ vetusto. La parola da lui più volte pronunciata è “palcoscenico”, a riprova che la ragion d’essere della band è la musica e lo spettacolo che sanno offrire dal vivo. Il resto viene dopo.
Un domanda che vi faranno in tanti: che vuol dire “Kaiorda”?
È un termine del dialetto siciliano, che cambia significato a seconda della provincia: a Messina e traducibile come ‘bimba dispettosa’, a Corleone ‘donna lurida e sciattona’, a Piana degli Albanesi ‘donna di facili costumi’ . Una donna piena di difetti, dunque, ma anche di passione e personalità.
Quando vi siete incontrati e come?
La Palermo del 2005 è sicuramente il luogo d’incontro. Esisteva un nucleo originale composto da Paolo Carrara, Davide Emmolo e altri. Gli altri ingressi sono stati spesso fortuiti; io ho sostituito Bruna Ferraro durante la sua gravidanza, ad esempio. Per fortuna, l’idea del gruppo era molto forte fin dall’inizio: ricercare suoni, linguaggi e dialetti per rievocare l’antico dialogo tra i popoli che si affacciano sul Mediterraneo. Questo ha favorito un processo di autoselezione interno al gruppo.
In effetti il vostro album ‘Safar’ sembra un omaggio alla musica popolare.
Si, il suono di ‘Safar’ non è contaminato da sax e batterie. Preferiamo tamburi a cornice, tammorre e altri strumenti a Corda. Ovviamente la musica popolare è solo il punto di partenza, anche nei testi. Davide Emmolo ha saputo rendere contemporanei i testi della tradizione.
‘Safar’ vuol dire viaggio?
In arabo vuol dire ‘vuoto’, ma anche ‘giallo’: il riferimento è ai viaggi dei guerrieri che lasciavano vuote le loro case, ma anche ai mesi autunnali in cui Adamo venne cacciato dal giardino dell’Eden. Il nostro è un viaggio dal passato verso il presente, partendo dalla tradizione di queste terre antiche. Nei 14 brani di ‘Safar’ c’è molta improvvisazione, ma la bussola è volta sempre alla diversità e alla costruzione di linguaggi complessi tra musica, danza e dialetti.
Dove l’avete registrato?
A Scordia (CT) presso gli studi Sonovia, con un clima in sala d’incisione molto positivo, decisivo per il lavoro finale. L’amicizia è il vero collante di un gruppo che con tutti questi elementi, e con uomini e donne nella stessa formazione, rischierebbe molto in termine di coesione. Abbiamo tutti molti impegni di lavoro, e la routine a volte crea momenti difficili, ma l’esperienza dal vivo è sempre appagante. I momenti più belli, per me, sono quelli sul palco.
Già, siete davvero in tanti, e tante volte vi esibite con formazioni diverse. Quasi un gruppo modulare?
Il perimetro del gruppo è ben delineato in realtà, disegnato anche intorno ad alcune fuoriuscite sofferte, proprio per ottenere il massimo dell’impegno e della compattezza. Inoltre, veri e propri membri aggiunti al gruppo sono il tecnico delle luci, la nostra folk dancer Linda Mongelli, gli scrittori che preparano i testi per le parti recitate sul palco. La messa in scena e la dimensione teatrale dello spettacolo è molto importante per noi. La musica è curatissima, ma è importante anche il modo di proporla.
Progetti futuri?
Stiamo gettando le basi per il nuovo disco. Intanto ci prepariamo a un’estate di esibizioni davanti al nostro pubblico siciliano.
Vi definireste un gruppo impegnato?
È come se fossimo guidati da un istinto che mi fa rispondere di si, nel senso che col pubblico c’è ormai un legame misterioso. Ci ritroviamo a suonare alla Festa dell’Unità, o per Addio Pizzo negli agriturismi confiscati alla mafia, o nei mercati equo e solidali perché chi ci cerca, evidentemente, avverte un legame antico con la terra e con certi valori, e viene attratto dalle atmosfere della nostra musica. Ci dicono che dal palco proviene un senso di mistero, collettività ed energia. È qualcosa di traversale, senza posizioni politiche aprioristiche: a Pantelleria ci hanno avvicinato anche militanti della Lega Nord; volevano che suonassimo in Veneto per dimostrare, attraverso la musica, il legame che si può avere con la propria terra.
I vostri futuri lavori saranno influenzati da ciò che sta accadendo oggi nel Mediterraneo?
Non posso prevederlo, deciderlo adesso farebbe sprofondare il nostro lavoro nella retorica. Il lavoro parte da, ed è sempre, sulla ricerca musicale e la rielaborazione della tradizione popolare. Per rendere l’idea, il brano ‘Giovanni e Peppino’ contenuto in ‘Safar’, che inscena un dialogo tra Falcone e Impastato, è stato scritto solo decenni dopo gli attentati.
Anastasi Andrea