Storie di volontariato in carcere: Nadia fra gli “uomini-ombra”

LA STORIA – NADIA FRA GLI “UOMINI-OMBRA”

Una volontaria della Comunità Papa Giovanni XXIII racconta la sua esperienza, nata alla scuola di don Oreste Benzi. Opera nelle carceri, specie fra quei detenuti con scritto “fine pena: mai”.

di Alessandro Micci

«Chi crede nell’uomo non può credere che l’uomo sia irrecuperabile». Quando Nadia Bizzotto parla delle giornate trascorse in carcerecon gli ergastolani il suo sguardo si illumina di partecipazione. C’è la convinzione che degli uomini che hanno sbagliato e che pagano per questo debbano pagare il giusto, non di più. Che a un’ingiustizia non si rimedi con un’altra ingiustizia, che il senso del carcere sia il recupero e la rieducazione, proprio com’è sancito nello stesso ordinamento giudiziario, e non la vendetta.

Nadia fa parte della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi che nel 1973 apre la prima casa-famiglia per essere vicino agli ultimi, e oltre a lavorare in carcere con gli ergastolani è responsabile di una casa di accoglienza in Umbria, a Bevagna. La Comunità ne conta circa 200 in Italia ed è presente all’estero in oltre venti Paesi.

La casa di Nadia è all’interno di un’ex convento dei frati minori di Assisi, il convento dell’Annunziata, e accoglie adulti in difficoltà. Chiunque può trascorrere un periodo di volontariato, oppure accedere a una verifica, di almeno un anno, se sente la vocazione per la Comunità. Nadia è membro dal 2000, nata in Veneto viveva a Bassano del Grappa, poi di concerto con Don Oreste si trasferisce in Umbria nel 1999. La Comunità non chiede nessun voto, ne fanno parte sacerdoti, ci sono laici e coppie di sposi che gestiscono case, l’importante è sentire il carisma del donarsi agli ultimi, chiunque essi siano.

Oltre ad avere la responsabilità di una casa, Nadia frequenta il carcere di Spoleto tutte le settimane, dove incontra gli ergastolani ostativi, e da quando il gruppo che segue da anni è stato spostato e sparpagliato per la penisola gira il nostro Paese senza abbandonarli. Gli ergastolani ostativi sono i cosiddetti “sepolti vivi”: “uomini ombra”, sono quelli che scontano la “pena di morte viva”, ovvero l’ergastolo di chi è condannato per reati associativi e non ha scelto la via della collaborazione.

Per loro, secondo l’articolo 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario che esclude qualsiasi beneficio a chi non collabora, le porte del carcere non si apriranno mai, neanche dopo 20, 30 o 40 anni, neanche per andare al funerale dei propri familiari.

Attualmente gli ergastolani in Italia sono oltre 1500 e «circa i due terzi sono ostativi», dice la Bizzotto. Sui loro fascicoli c’è scritto “Fine pena: mai”, ma «l’ergastolo è una pena disumana, non si può scrivere la parola mai su un essere umano, la scienza oggi dimostra che le persone nel tempo cambiano, non rimangono sempre le stesse», continua, «e inoltre va contro il senso dell’articolo 27 della Costituzione», quello secondo cui le pene dovrebbero tendere alla rieducazione.

«In carcere la recidiva è altissima, siamo a oltre l’80% per chi finisce di scontare la pena all’interno, mentre scende al 15% per chi accede alle misure alternative. Ci sono più di cento persone oggi in carcere da oltre trent’anni, ma il carcere non crea maggiore sicurezza. Chi commette un reato ha il diritto alla rieducazione e a essere restituito come valore sociale alla comunità», dice Bizzotto.

Dunque il punto non è quello di mettere in discussione l’esistenza del carcere o l’efficacia della detenzione e della pena, né che il condannato sia tolto dalla società finché può fare ancora del male.

Si tratta invece di capire il senso profondo dell’istituzione-carcere per come è concepita nell’ordinamento giuridico, il suo senso e la sua funzione: «Il carcere non può essere il fine», prosegue Bizzotto, «il vero fine consiste nel riportare in seno alla società chi ha sbagliato. Non è giusto tenere in carcere le persone dopo che sono cambiate, bisogna scegliere se si vuole unagiustizia riparativa o vendicativa. E una giustizia riparativa non vuol dire negare il rispetto alle vittime o al loro dolore, ma non dimenticare che nel reato di ognuno c’è anche una responsabilità sociale».

«Incontro ragazzi», continua, «che sono stati condannati all’ergastolo a 18 anni e a 40 non sono ancora mai usciti, hanno passato più vita in carcere che fuori. Non posso non pensare che se non fossero nati in un determinato contesto sociale forse avrebbero fatto altro. Questo non esclude la responsabilità individuale per le proprie azioni, ma vuole introdurre una responsabilità sociale che trovo ancora più significativa per i reati di tipo associativo (quelli che vanno incontro all’esito processuale dell’ergastolo ostativo, ndr). Non sempre chi nasce in un certo contesto è veramente libero».

Nadia Bizzotto spiega che «esistono due tipi di ergastolo: per chi non ha un reato ostativo dopo 26 anni c’è la possibilità di ottenere la libertà condizionale, e i permessi. Nel caso invece di reati associativi niente di tutto questo è possibile, a meno che non si sia collaboratori di giustizia. Ma così si creano dei paradossi, perché anche nei casi più esemplari di rieducazione non c’è niente da fare».

Ci sono casi emblematici che mostrano il successo nella rieducazione, come quello di Carmelo Musumeci, che sconta un’ergastolo ostativo, e che entrato in carcere con la quinta elementare si èlaureato in giurisprudenza e ora è iscritto a filosofia. Ma soprattutto nel suo caso «la presenza di cinque pagine di relazione positiva da parte di tutti gli organi preposti alla valutazione, dal direttore del carcere, allo psicologo, al comandante delle guardie carcerarie, all’assistente sociale, che riconoscono nel merito il cambiamento della persona – evento molto raro – non cambiano di una virgola la situazione. In più di vent’anni è uscito un solo giorno per undici ore per discutere la tesi di laurea».

«La collaborazione», sottolinea la volontaria, «è una scelta processuale, non morale, ago della bilancia per le agevolazioni nei casi di reati associativi. Non è in sé indice di pentimento morale». Ci sono casi di boss mafiosi collaboratori di giustizia che una volta fuori hanno ricominciato con la propria attività criminale, e viceversa casi di persone che non scelgono la via della collaborazione (e quindi non accedono ai benefici) perché è passato troppo tempo dai fatti e non hanno più nulla di nuovo da dire, oppure non vogliono mettere in pericolo la vita dei familliari e dei figli. Entrando nel programma di protezione dovrebbero stravolgere le loro vite a venti o trent’anni di distanza dai fatti.

«L’ostatività è una misura introdotta con una legge d’emergenza per i reati associativi di mafia e l’emergenza non può essere tale per vent’anni», conclude Bizzotto. La sua battaglia come quella degli altri volontari dell’associazione Papa Giovanni XXIII testimonia che l’ergastolo, specie quello ostativo, è una pena irrazionale, perché «non ha senso rieducare per portare alla tomba rieducati. E come diceva Don Benzi “se un uomo ha capito i propri sbagli ogni giorno di carcere in più è un bene tolto all’umanità”».

Tratto da:

http://www.famigliacristiana.it/articolo/la-storia—nadia-fra-gli-uomini-ombra.aspx

 

Nella foto Nadia Bizzotto con don Oreste Benzi

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