Non chiamatela “l’amica di Pavese”: lei è Bianca Garufi
Ci sono volte in cui il Caso la combina così giusta che ti viene da chiamarlo Destino. E non per forza si tratta di grandi eventi: può essere anche un piccolo fatto che, però, ti regala un’emozione, un nuovo entusiasmo, magari una nuova causa da perorare. Dunque, per Caso o Destino mi ero rimessa dopo vent’anni sulle tracce di Cesare Pavese e, mentre mi incamminavo, mi è capitato un simpatico equivoco (ciao e ancora grazie, Alessandro!) che mi ha fatto scoprire l’esistenza di “Fuoco grande”, romanzo scritto a quattro mani da lui e Bianca Garufi.
Mi sono bastate poche pagine, forse poche righe, per restarne folgorata: una storia tormentata e cupa, riflessioni esistenziali e una scrittura precisa, evocativa e a tratti inusuale, sia nelle parti curate da Pavese (con narratore Giovanni, protagonista maschile) sia in quelle curate da Garufi (con narratrice Silvia, protagonista femminile). Impossibile, dopo averlo finito, non passare a “Il fossile”, seguito scritto dalla sola Bianca, e poi anche alle lettere che lei e Cesare si scambiarono. A farmi da Virgilio in questo viaggio tra il loro Inferno e il loro Purgatorio è stata Mariarosa Masoero, curatrice sia della “Trilogia” di Garufi (che oltre ai due libri citati include “Libro postumo”, suo primo romanzo rimasto inedito fino al 2018) che della raccolta commentata del carteggio tra i due (“Una bellissima coppia discorde”, titolo che riprende una definizione che diede del loro rapporto lo stesso Pavese). Sono state soprattutto le sue numerose, dettagliatissime note e la sua passione per Bianca Garufi ad avermi spinta a contribuire alla causa di emancipazione di questa scrittrice, per troppo tempo rimasta ingiustamente all’ombra di Pavese.
Un primo torto glielo fece Italo Calvino quando, nel 1959, “Fuoco grande” uscì per Einaudi e lui lo presentò come un inedito del celebre collega (ormai scomparso da quasi dieci anni), scritto «in collaborazione con un’amica». Quella che lui definì «una delle più forti e aspre storie narrate da Pavese» nacque, però, da un’idea di Bianca Garufi, precisa Masoero. Non so se Calvino fosse solo poco entusiasta delle di lei doti letterarie o se provasse nei suoi confronti anche un’antipatia personale, fatto sta che quando gli sottoposero il seguito che la Garufi aveva deciso di scrivere da sola, liquidò l’idea come «riprovevole» e il risultato come caratterizzato da «tranquilla mediocrità». Rispetto a “Fuoco grande”, inoltre, lo trovò «più stracco, monotono come una cantilena» e contestò il fatto che il personaggio maschile risulti quasi cancellato. Masoero definisce questo giudizio severo, ma francamente a un “severo ma giusto” non ci starei. È vero, anche io nei primi capitoli in cui voce narrante è Giovanni ho sentito la mancanza dello stile e del sentire di Pavese. Proseguendo nella lettura, però, mi ha sorpreso non percepire più così nettamente questa carenza. Non nego, inoltre, che nel primo volume ci sia complessivamente più tensione e che nel secondo alcune parti risultino lente e tiepide, stracche, appunto, per dirla con Calvino. Tuttavia, parlare addirittura di monotonia mi pare ingeneroso, se non altro perché – come ne attestano i diari e le lettere – Bianca Garufi riversò molto di sé in questa Silvia come nell’omonima protagonista di “Libro postumo”. E di lei certo non si può dire che fosse monotona e prevedibile: significativo il fatto che Pavese la rimproverasse spesso per la sua incostanza nel portare avanti i progetti in cui si imbarcava e che, per altro verso, ne apprezzasse l’irrequietezza («Bianca, come va il tuo caos vitale? Non riordinarlo troppo, perché allora ti sparirà anche l’interesse alla vita»). Quanto al ridimensionamento del ruolo di Giovanni, Calvino ha sicuramente ragione, ma ritengo si sia trattato di una precisa scelta o, perlomeno, di un esito inevitabile perché “Fuoco grande” è una storia “silvio-centrica”. Silvia è, cioè, il fulcro attorno al quale prende a ruotare la vita, anche interiore, di Giovanni («ero ancora il più debole, lo sapevo malgrado tutto», gli fa dire Garufi), per cui l’affievolirsi della sua dipendenza da lei e l’allentamento del loro legame non poteva che determinare uno spostamento in secondo piano dell’uno rispetto all’altra.
Non è, però, tanto questo giudizio letterario – che, fondato o no, resta autorevole – ad avermi spinta a vestire i panni di difenditrice di Bianca Garufi: ciò che trovo ingiusto è che non le siano stati a suo tempo riconosciuti autonomia e valore artistici. Non solo, infatti, non le si riconobbe la paternità (o maternità se preferite) dell’idea alla base di “Fuoco grande”, ma ci fu anche chi mise in dubbio la rilevanza del suo contributo nella stesura del romanzo. La stessa Garufi scrive in una lettera di presentazione de “Il fossile”: «ho continuato le 2 voci perché è stato detto che non avevo nemmeno scritto i capitoli miei». L’inusuale lavoro a quattro mani, peraltro, destò molto stupore: Carlo Bo, per esempio, definì un «fatto clamoroso» che un affermato e schivo scrittore quale era Pavese avesse dato vita a questa «collaborazione con una donna», «una giovane donna». Non mancarono poi quelli che si occuparono soprattutto del loro rapporto personale, intimo, più che di quello professionale, altro torto lamentato da Garufi nella lettera citata. L’impressione mia è che sia stata vittima di pregiudizi in quanto donna, in quanto giovane e in quanto autrice minore. Certo, la sua scrittura non raggiunge il livello di Pavese, ma è proprio l’agevole confronto che consentono di fare i capitoli di “Fuoco grande” a mostrare che il distacco non è così netto. Ne sono conferma anche altre sue prose, caratterizzate da una notevole capacità creativa ed espressiva. Non ho trovato la scrittura di Garufi meno affascinante di quella pavesiana, né nei contenuti («ognuno deve scorrere con il suo elemento, […] è inutile frenarsi, afferrarsi, e […] più che inutile, è perfido», da “Libro postumo”) né nella forma: «[…] correvo a casa ogni sera per potergli preparare, e me preparare per il suo arrivo […].», da “Libro postumo”; «Polvere per terra, più che altro odore di polvere, come, dopo un ballo, in una sala vuota.», da “Fuoco grande”.
È interessante che lei stessa giudicasse in modo altalenante la sua opera di scrittrice. Più volte nelle lettere a Pavese esprime insoddisfazione per ciò che ha appena terminato di scrivere, ma in altre occasioni si mostra, invece, sicura, come quando “profeticamente” scrive nel suo diario: «Dove andranno a finire questi fogli? Chi li leggerà un giorno? Perché è certo che io sono una scrittrice di cui un giorno si pubblicheranno epistolari e quaderni d’appunti». Proprio le lettere e i diari ci consentono di comprendere meglio il valore dei suoi scritti, le influenze che più persone esercitarono sulla sua vita e sulla sua scrittura. Anche se è fuor di dubbio che Pavese la condizionò moltissimo: «Possibile che io senta in comune i miei miti e i tuoi? Forse è per via del romanzo o forse è per via che ti amo […]», gli scrive lei una volta. Tuttavia, non è corretto immaginare questa relazione come sbilanciata a favore di Cesare, dare per scontato che l’influenza sia stata unidirezionale. Fu Bianca, per esempio, a definirlo una volta “storto”, termine che – segnala ancora la precisissima Masoero – Pavese adotterà due giorni dopo per definire sé e il suo modo di comportarsi nel diario che poi diverrà “Il mestiere di vivere”. “Storto”, peraltro, è un aggettivo caratterizzante della lingua garufiana, usato per definire anche sé stessa e il personaggio di Silvia. Non c’è dubbio, quindi, che tra i due la contaminazione fosse reciproca, nella vita come nella scrittura. Che altro aspettarsi, del resto, da «una bellissima coppia discorde»?