Non di solo libri vive Mantova, ma pure di mostre ed ebraismo
Durante la XIX edizione del Festival della letteratura, Mantova ha ospitato numerose mostre, occasione per conoscere anche gli affascinanti luoghi scelti per allestirle. Tra questi, particolare attenzione merita la sinagoga Norsa.
Proseguo oggi a raccontarvi il mio personale tour di Mantova, fatto durante l’ultima edizione del Festivaletteratura. Girando per mostre, ho acquisito molte informazioni interessanti e, soprattutto, scoperto un gioiello cittadino che meriterebbe più attenzione e visibilità da parte del Festival.
MOSTRA “NAKED PLANTS” – BIBLIOTECA TERESIANA E SINAGOGA NORSA
Durante il Festival della letteratura, la Biblioteca Teresiana ospitava due mostre: “Cibi dall’altro mondo”, di cui vi ho parlato ieri, e “Naked plants: sospensione di un gelso e donazione di semi”, dell’architetto, fotografo e artista Gianluca Balocco. L’esposizione è parte di un lavoro più ampio, illustrato nella pubblicazione “Naked plants”, in cui le piante sono immortalate mentre stanno sospese nel vuoto «in un istante impossibile», dice la presentazione, rendendo perfettamente l’idea della sensazione provata dall’osservatore davanti a questo incantesimo.
Visitando quest’esposizione alla Biblioteca si poteva scoprire (tra poco vi spiegherò il perché di questo verbo) che un’altra parte di tale lavoro (“Naked plants. Un ponte tra uomo e natura“) era esposta presso la Sinagoga Norsa – Torrazzo. Quest’ultima si trova in via Govi e per i turisti non è facile da trovare (dall’architetto Balocco ho appreso che un gruppo di turisti ci ha impiegato circa due ore) perché nelle mappe del Festival non è indicata (bizzarro, dato che tra gli eventi delle varie edizioni non mancano appuntamenti dedicati alla cultura ebraica) e ci sono persino mantovani che ne ignorano l’esistenza, nonostante sia stata dichiarata monumento nazionale. Nel programma del Festival, peraltro, come sede della mostra “Naked plants” veniva indicata solo la Biblioteca. La parte ospitata presso la sinagoga non era menzionata, eppure, era altrettanto significativa sia dal punto di vista artistico che culturale in generale: oltre a comprendere foto splendide, anche in formati più grandi rispetto a quelle esposte nella Biblioteca teresiana, aveva, infatti, il merito di evidenziare il legame – non a tutti noto – tra gli ebrei mantovani e la manifattura serica.
Dal presidente della comunità ebraica di Mantova, il dott. Emanuele Colorni, ho potuto apprendere che nel XVIII secolo, nel mantovano, si cominciò a coltivare gelsi, le cui foglie sono l’unica fonte di alimentazione dei bachi da seta. Iniziarono così a fiorire numerose filande ebraico-cristiane; inoltre, gli ebrei commercializzavano la seta e ne importarono le tecniche di colorazione, in particolare con l’indaco. Le sete tinte di questo colore erano, peraltro, tra le più pregiate. L’attività di allevamento dei bachi e di produzione della seta era praticata anche in alcune case private per “arrotondare” le entrate.
L’imperatrice Maria Teresa d’Austria volle censire tutte – proprio tutte – le piante di gelso presenti in ogni appezzamento riportato nelle mappe catastali, non certo con nobili intenti ma con lo scopo di poterle poi tassare.
Il mercato della sete, però, entrò in crisi con l’avvento delle fibre sintetiche, per cui l’epoca d’oro delle filande resta ormai solo un ricordo di cui giusto qualche anziano conserva ancora viva memoria per averla vissuta. Di questo patrimonio vegetale non resta ugualmente quasi nulla: dall’arch. Balocco ho, infatti, tristemente appreso che sono stai distrutti 440mila gelsi («una foresta» ha sintetizzato per darmi un’idea dell’enormità della perdita).
Nelle foto realizzate dall’artista sono visibili, decorate con semi di gelso e qualcuna riprodotta in scala 1:1, alcune delle famose mappe catastali che censiscono i gelsi. Si tratta di un numero consistente di documenti, che per l’architetto è stato impegnativo consultare. Le immagini virano al viola, ma solo in parte per intervento artificiale: i semi di gelso, infatti, hanno una colorazione naturale che tende a questa tonalità.
La mostra, però, come tutto il lavoro complessivo di “Naked plants” è anche un’indagine sulla personalità delle piante e sul loro rapporto con l’uomo. Significativo un passaggio di uno dei testi che accompagnavano queste meravigliose foto: «[…] l’uomo appare a se stesso e al mondo come l’ultimo colonizzatore aggressivo e vorace, incapace di stabilire equilibri. Ma è proprio così? Probabilmente nella storia di questo pianeta siamo anche l’unico essere vivente che vive emotivamente le rivoluzioni e i cambiamenti del mondo. […] l’uomo è legato al mondo vegetale sia biologicamente (condividiamo con le piante il 26% del DNA) che spiritualmente e anche se abbiamo perduto il contatto primario con questi esseri viventi possiamo tentare di recuperare ancora in parte questa dimensione ancestrale».
La bellezza di cui ho potuto godere, però, non è legata solo alla mostra: la sinagoga è splendida, oltre che rara per il suo aspetto. Come ho potuto apprendere dal presidente della comunità ebraica, infatti, in altre sinagoghe, quali quelle di Roma e Milano, l’elemento dominante è il marmo, che qui invece è presente sono nel pavimento. A dominare in questi interni è il legno, affiancato dal ferro battuto. Lo stile è tardo-barocco e non sono presenti rappresentazioni iconografiche: l’effetto decorativo è affidato a stucchi oltre che a versetti e citazioni bibliche scritti in ebraico, i cui caratteri sono di per sé già esteticamente raffinati. I colori usati sono pochi (bianco, nero, oro, marron scuro e verde scuro) e le scelte cromatiche contribuiscono a dare un’idea di sobrietà e solennità. Dipinta è, però, la parete di fronte all’ingresso, che riproduce l’aspetto della parete che le sta davanti, in cui è collocato il matroneo. La facciata esterna, invece, nulla rivela dei magnifici interni e poco segnala dell’essere una sinagoga.
In origine la sinagoga si trovava in via Scuola Grande, così denominata proprio per la presenza di questo edificio: la sinagoga era, infatti, chiamata anche “Scola”, denominazione dei luoghi di culto, studio e discussione religiosa. Agli inizi del Novecento fu traslata in via Govi e qui conobbe anche un periodo estremamente buio: all’epoca delle “leggi razziali” fu, infatti, usata come ghetto e campo di concentramento, in cui furono rinchiusi una quarantina di ebrei poi deportati ad Auschwitz. Solo uno di loro sopravvisse.
L’unico oggetto sacro presente nella sinagoga – «perché Dio è uno» ha sottolineato il dott. Colorni – è il Sèfer Toràh, il rotolo su cui è scritta la Torah, che viene custodito nell’Aron ha-qodesh (o Aron-Ha-Kodesh o, ancora, Aròn hakkodeš), ossia l’Arca-armadio, anche detta Arca santa o Armadio sacro.
Si tratta di un’opera del Settecento, di grande valore, realizzata in legno intagliato verniciato d’oro.
A prima vista sembra, anzi, costruita proprio con questo metallo. Ma torniamo alla Toràh, termine che viene tradotto come “Libro della legge”, ma che in realtà – apprendo dal presidente della comunità – significa “Libro dell’insegnamento”.
E la differenza tra i due termini è evidentemente notevole, come lo è quella che corre tra “autorità” e “autorevolezza”.
Forse non tutti sanno che il Sacro rotolo non si tocca con le mani, per non renderla impura: per tenere il segno si usa un arnese chiamato Jad (Mano). Uno di questi arnesi è esposto in vetrina insieme a un Sèfer Toràh, che riesce a suscitare timore reverenziale anche stando placidamente sdraiato dietro a un vetro. La pergamena sembra cuoio, tanto appare solida e spessa; le suture tra un foglio e l’altro sono visibili ma non deturpanti; l’inchiostro, dopo secoli, è ancora perfettamente nero e leggibile. «Oggi non si sa più com’era composto» ci ha spiegato il presidente della comunità. In un’altra vetrina è poi possibile ammirare alcuni antichi drappi di seta usati per avvolgere la Toràh.
Ed è sempre davanti alla Toràh che, con stupore, ho scoperto che nella lingua ebraica scritta non si usano vocali. Questa lingua, infatti, è una derivazione dell’alfabeto fenicio, privo appunto di vocali. Perché così strutturato? Per consentire maggior rapidità nel trascrivere le parole (da buoni commercianti, i fenici sapevano che il tempo è denaro). «Una sorta di stenografia» ha commentato una visitatrice.
Da segnalare anche la presenza di un vecchio armonium ancora funzionante. Il dott. Colorni ci ha raccontato che, a metà Ottocento, il rabbino Mortara consentì di eseguire brani musicali nella sinagoga (di norma non si canta, ma si prega con una particolare intonazione simile al canto), per cui alle celebrazioni prendeva parte pure un coro. Questo alloggiava in un locale sovrastante il matroneo (a sua volta posizionato al primo piano) e – tra i vari brani, di cui restano ancora gli spartiti – eseguiva pure una versione della preghiera del kaddìsh cantata su un passaggio dell’Aida di Verdi. Che roba, eh? Non dimentichiamo, tra l’altro, che la comunità mantovana ha giocato un ruolo importante nella storia della musica ebraica, dando i natali a Salomone Rossi, il più grande compositore ebreo.
Accennavo prima al matroneo: in origine, le donne partecipavano da lì alle celebrazioni, mentre i banchi erano riservati agli uomini. Oggi che la comunità si è notevolmente ridotta, le donne siedono, invece, nel blocco di banchi prossimo all’entrata, mentre gli uomini in quello in fondo. Ogni banco ha uno stipetto per riporre gli oggetti personali per la preghiera e reca un numero perché un tempo erano assegnati ai capifamiglia, riservando le prime file – naturalmente – a quelli delle famiglie più influenti. Le due serie di banchi sono divise da un corridoio centrale che si sviluppa in orizzontale a congiungere idealmente due nicchie, rese luminose da grandi vetrate: nella nicchia a est, alla destra di chi entra, si trova il pulpito dell’officiante, mentre in quella a ovest, alla sinistra di chi entra, sta l’Aron ha-qodesh, la cui centralità ipotizzo possa equipararsi all’altare con il Santissimo nelle chiese cattoliche.
Come accennavo prima, la comunità ebraica mantovana è purtroppo ormai molto ridotta, segno che non è solo il credo cattolico a essere in crisi nella società attuale. In più, come ci ha spiegato il dott. Colorni, gli ebrei non fanno proselitismo. Le ridotte dimensioni della comunità hanno fatto sì che la sinagoga ormai funzioni molto come museo (segno che l’interesse verso questa cultura è comunque elevato) e poco come luogo di assemblea e culto (questo il significato del termine “sinagoga”, proprio come del termine “chiesa”). Come accennato prima, però, essa è anche luogo di studio: l’ebraico, infatti, è una lingua complessa, in cui la stessa parola può avere numerose interpretazioni, spesso moltiplicate dal fatto che certi vocaboli possiedano una radice comune con altri. Una complessità che è anche causa di dispute tra rabbini. E superfluo è evidenziare, a questo punto, quanto possa essere opinabile, restrittiva e talvolta fuorviante la traduzione che dei testi sacri viene fatta nelle nostre lingue moderne. Per darci un’idea della complessità ma anche dell’eloquenza di questa lingua, antica ma ancora capace di spiegare il presente, il dott. Colorni ci ha fatto presente che fame e guerra in ebraico si scrivono con le stesse lettere.
Per puro caso, ho compiuto questa visita domenica 13 settembre 2015, vigilia del Capodanno ebraico, scoprendo così che per questa religione è cominciato l’anno 5776. «Non chiedetemi come sia stata definita questa data» ci ha detto il presidente facendoci sorridere perché quanto a date convenzionali noi cristiani non siamo da meno. D’altronde, siamo un’unica famiglia, anche se non sempre ce ne ricordiamo.
La foto della serie “Naked plants” è di Gianluca Balocco; le altre foto sono si Silvia e Marcella Onnis