Raccontonweb: “Un’ora del mattino, ode al borgo nuovo del Kaos” di Gaetano Marino
Ospitiamo oggi con grande piacere la prima parte di un bel racconto di Gaetano Marino, talentuoso “attore, regista, autore teatrale, contastorie e drammaturgo del suono” ma anche direttore artistico dell’associazione culturale Aula 39.
Prima di lasciarvi alla lettura del brano, consigliandovi di continuare a seguirci per conoscerne il seguito, vi ricordiamo che anche voi potete inviarci i vostri racconti. Partecipare alla rubrica Raccontonweb è ancora più facile con il nuovo regolamento!
Un’ora del mattino, ode al borgo nuovo del Kaos
C’è una cosa nel dunque di questo borgo nuovo che mi ha sempre turbato. Mi capita spesso quando bivacco fuori di casa e me ne sto di sotto al portone a pescare un po’ d’aria fresca. È lo sguardo inevitabile che si ripiega verso un paesaggio che sa di sconcerto e mi rende attonito. Forme e linee senza meta mi circondano, aggrovigliate in un disordine che non sa di nulla. Le facciate dei palazzi ne sono così sfigurate da provarne biasimo. Nulla ha un senso o un non senso, come se mancasse quel di più per un amore del buon vivere. Direi buon gusto, ma non credo proprio di esserne così capace.
Tutto però mi appare nella mia ignoranza, triste e desolato. Un immane residuo inorganico del profitto maldestro. Come se avessi la sensazione di percepire il grande dilemma, dalle origini di questo luogo cementato.
– Dove svuotare la betoniera?
Pare si chiedessero i padri fondatori dell’avveniristico quartiere, che di nome si prese Pitz’e Serra. Un pugno di terra adagiato ai piedi di una collinetta, da cui il suo nome, che sorride al mare e che un tempo fu di vigne pregiate.
Oggi ospita un grande numero di nuovi cittadini. I viados del terziario. Questo sobborgo è posto ai confini di una cittadella, che conta quattro miglia romane esatte dalla città maggiore di Kalaris.
Il Quarto Domino. Residenza estiva degli schiavi di Roma imperiale; a cui venne poi aggiunto in affidamento il nome sacro di Sant’Alèni.
Così fu che la splendente madre Augusta s’aveva da vestire a festa.
In men che non si pensi i misantropi del bene comune, vestiti di mille colori e risa, strapparono vigliaccamente l’onestà del loro tempo alla propria dignità. L’ingenua ignoranza dei vecchi proprietari vignaiuoli divenne la loro fonte di ricchezza.
– La terra alla civiltà del credito!
Fu il grido incantatore di quel fine secolo. Ci furono abili menzogne, promesse miserande e gravi minacce sotto i ceppi delle vigne, perché si intuisse senza equivoci quanto fosse importante crescere, confrontarsi con il mondo che sta oltre, ma soprattutto, perché la volontà del popolo non si discuta, sia chiaro.
Bastò un colpo di mano nella casa comune, che ne cambiò radicalmente la destinazione. Esattamente un attimo dopo aver strappato gli appezzamenti per qualche lira. In pochi mesi emersero questi palazzacci, mostri divoratori di ogni bellezza. La nuova Atlantide della speculazione dei furbetti teneva tutti dentro. Sia chiaro che nessuno dovesse restarne fuori altrimenti il piano si sarebbe inceppato. Un breve spazio di tempo ancora e avvenne la mutazione genetica. La transumanza di tutti noi, pionieri metropolitani alla deriva, in cerca di un pascolo nuovo e rigoglioso, ebbe inizio.
Inevitabile dunque, che il mio sguardo si soffermi ad ammirare questi ammassi di sabbia calcinosa, pericolosamente fragili, anche al solo sguardo.
Vorrei soprattutto sapere quali pericolose donnine frequentasse lo scultore di queste arnie cementifere. Chissà quanta pena nel creare una forma, o supporre una linea e un colore da destinare a questi sublimi loculi; dove pure io, non mi dimentichi, alloco il mio corpicino.
Onore dunque al brutto dell’arte, davvero; perché ci vuole grande impegno anche solo per dare un gusto all’orrido di un dormitorio di periferia. E qui di fascino ce n’è tanto, eccome. Non c’è posto né pietà per i dilettanti.
Lo voglia o no, questa è la cittadella nuova, che conta sempre più nuova gente come noi, anime viaggianti, affiancati alle famigliuole mezzo laboriose e mezzo furfantelle, pure all’anagrafe. Eh sì, qui si dorme solo il tanto che serva a non sentirsi usurpati da una cultura estranea. Io per primo. Neppure si fa vita da bar dello sport o di alcunché. Forse l’unica speranza è che tra qualche anno i figli, i loro figli, si ritrovino nei parchi o per le piazzette disadorne, ad imbastire le loro future memorie.
Ode a Pitz’e Serra dunque, dormitorio umano. Quattro miglia romane per una vita che s’ha da vergognarsi ancora, in un giorno che non vuole vedersi nascere, da sempre, o che non avremmo mai voluto veder crescere, o conoscere.
Eppure, proprio in questo quartieraccio, dominio del brutto assoluto, ho assaporato ogni piacere e ogni dolore che la mia scarsa vita potesse donarmi. Qui ho provato amori e abbandoni, gioie e sconfitte. Alla faccia del buon gusto e del senso estetico alto di certi buoni pensatori.
Tra queste case ho costruito il mio luogo fantastico dove far nascere i personaggi con le loro avventure narrate e da narrare. Fantasmi di scena e non solo ombre. Dentro questo stesso luogo di storie, in una notte di mezza estate, ho conosciuto una fanciulla spregiudicata e inconsapevole quanto me, che mi ha fatto dono di una creatura e di un’altra ancora.
Anime belle. Creature angeli che hanno cambiato ogni mio pensiero, ogni mio credere e ogni mia saggezza presunta; la prova inconfutabile che ci sono momenti, quelli meno prevedibili e incoscienti, in cui puoi farla tu al destino. Come? Ora ve lo racconto.
Dobbiamo partire da molto prima nel tempo. Perché per raccontare una storia come questa, semplice come tutte, non si può partire dal tempo di ora e qui, mi pare evidente. Quel che ci consegna al presente è quel che abbiamo già vissuto, cioè, il passato. Il futuro ce lo possiamo solo sperare. Lo sappiamo tutti. La curiosità spiona è che ognuno di noi vorrebbe capire come accidenti ci si sia trovati ad indossare quel destino, piuttosto che un altro. Perciò, partiamo da lì, da quell’altro destino, quello che ci pensavamo di sicuro indosso.
Partiamo da un giorno di qualche tempo fa, in un’ora del mattino, anche se poi non è detto che ad un certo momento non si vada ora avanti ora a ritroso, dipenderà da quello che il caso vorrà imporre nell’incedere del racconto. L’imprevedibile memoria emotiva sta nello sguardo nostro di raccontarci.
(continua)