“Una miniera” e “Doppio cielo”: omaggio ai minatori con musica e letteratura
La festività del 1° maggio è un’occasione per riflettere sulle problematiche del mondo del lavoro, prime fra tutte la sicurezza, che nel terzo millennio rappresenta ancora un nodo inaccettabilmente irrisolto.
La mia riflessione su questa ricorrenza vuole quindi essere un omaggio a quella categoria di lavoratori, i minatori, che svolge un’attività considerata tra le più pericolose e malsane. Un lavoro, il loro, che è ormai considerato demodé e di cui si tende a ricordarsi solo in occasione di eventi negativi: l’inquinamento che causa (pensiamo alla miniera di Furtei di cui tempo fa ci ha parlato anche la nostra Veronica Atzei) o gli incidenti che vi si verificano (pensiamo alla vicenda dei 33 minatori che l’anno scorso, in Cile, restarono prigionieri nel sottosuolo per 70 giorni).
A questi uomini che con il loro sudore e la loro vita tanto hanno contribuito all’affermarsi dei diritti dei lavoratori sono state dedicate numerose opere d’arte e riflessioni. Penso, ad esempio, a Giuseppe Ungaretti che, nel 1955, dopo aver visitato una miniera, affermò che “L’uomo non è fatto per lavorare nell’inferno” o, venendo ai giorni nostri, alla canzone “Il minatore di Frontale” di Davide Van de Sfroos (contenuta nell’album “Pica!” del 2008) o, ancora, allo spettacolo “Canti di miniera, d’amore, vino e anarchia” portato in scena, tra il 2009 e il 2010, da Simone Cristicchi con il Coro dei minatori di Santa Fiora.
I tributi su cui voglio soffermarmi, però, sono altri due, uno datato ed uno recente: la canzone “Una miniera” dei New Trolls (1969) e il romanzo “Doppio cielo” dell’antropologo e scrittore Giulio Angioni (2010).
“Una miniera” ha una melodia splendida, che ben si armonizza con il testo struggente: ispirata con molta probabilità a fatti tragici avvenuti in quegli anni – quali l’incidente di Marcinelle in Belgio (8 agosto 1956) che coinvolse molti minatori italiani emigrati – narra la drammatica fine dell’amore tra un minatore e la sua donna. Particolarmente toccante e ricco di pathos il ritornello dopo la seconda strofa, con quei versi quasi disperati: “Io non ritornavo e tu piangevi /E non poteva il mio sorriso/Togliere il pianto dal tuo bel viso”.
Lo stesso impatto emotivo lo si può ritrovare, circa quarant’anni dopo, nel romanzo di Angioni in cui si racconta, appunto, un’altra “storia di miniera”.
Doppio cielo è ambientato a Carbonia, la “città del carbone” creata dal nulla da Mussolini per contribuire alla realizzazione del suo progetto di autarchia. Una città dove persone di varie regioni d’Italia – proprio come al fronte– contribuivano a realizzare una “missione” in cui non tutti credevano. E la stessa forzatura forse qualcuno la sentiva nell’essere considerati un unico popolo, quello italiano, nonostante le diverse culture, abitudini e lingue.
Da un punto di vista stilistico, personalmente non l’ho trovato entusiasmante, anche se il linguaggio utilizzato è sicuramente coerente con l’ambientazione storica (il periodo fascista). Tuttavia, il libro ha conquistato la mia simpatia, forse perché a Carbonia ci lavorò anche mio nonno … e questo, peraltro, è il motivo per cui mio padre porta un nome così poco comune, gradevole e facile da ricordare, soprattutto per i bimbi: Ponziano, che è appunto il santo patrono di questa città. Ma, al di là di queste valutazioni personali, è indubbio che quest’opera abbia due punti di forza: ricerca ed emozione.
La fase di scrittura è stata preceduta, con tutta evidenza, da un accurato lavoro di ricerca, che ha permesso ad Angioni di arricchire la trama con dettagli utili al lettore per farsi un’idea più precisa di quella che era la vita dei minatori oltre che il loro lavoro, entrambi fondati su un valore senza tempo, che però oggigiorno tende ad essere dimenticato: la solidarietà.
Tuttavia, ciò che colpisce maggiormente – come accennavo prima nel parallelo con “Una miniera” – è l’impatto emotivo che suscita questa triste storia. Forse il paragone non farà piacere ai due autori interessati, ma da queste pagine trasuda la stessa intensità di “Stirpe” di Marcello Fois, altra storia di persone umili che accettano il proprio destino con grande dignità, anche quando si tratta di bere un amaro calice. In entrambe le opere, tra l’altro, le vicende dei protagonisti, “gente comune”, si mescolano con la Storia (in “Stirpe” le due Guerre mondiali), ricordandoci che dietro i grandi eventi non ci sono solo i grandi personaggi, ma anche e soprattutto i piccoli grandi uomini.
Oggi che parole come “grisù” e “silicosi” non fanno più parte del linguaggio comune, sarebbe giusto non mettere da parte almeno il ricordo dei minatori valorosi, delle loro lotte e delle loro vite sacrificate. Sarebbe giusto onorarne la memoria ponendo innanzitutto fine alle morti e agli incidenti evitabili negli ambienti lavorativi. Ma sarebbe anche tempo che i sindacati cominciassero a parlare con voce sola quando c’è da prendere decisioni vitali per il destino dei loro assistiti. E sarebbe ora che lavoratori e datori di lavoro iniziassero a valutare i problemi delle loro aziende anche dal punto di vista della controparte e non solo dal proprio, abbandonando la rigidità delle posizioni e sforzandosi veramente di trovare compromessi che – con il sacrificio degli uni e degli altri – permettano di superare i momenti di crisi.
Marcella Onnis
Redattrice – marcella.onnis@ilmiogiornale.org
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