Perché abbiamo così bisogno di storie?
Poteva forse il Festivaletteratura di Mantova esimersi dall’esplorare “il nostro innato bisogno di storie”? Certo che no! Infatti, nell’ambito della sua XXI edizione, ha previsto un incontro sull’argomento così intitolato e affidato al filosofo Maurizio Ferraris e a Michele Cometa, autore del saggio “Perché le storie ci aiutano a vivere”.
Nel suo lungo intervento introduttivo, Ferraris ha evidenziato come il nostro bisogno di storie sia così profondo e radicato da aver fatto sì che la pratica dello storytelling, la tendenza a dare forma narrativa, si sia infiltrata anche nelle teorie politiche ed economiche. Per il filosofo questa necessità quasi ontologica (l’aggettivo è mio) è stata esaurientemente esplorata e spiegata da Cometa che, a suo parere, può considerarsi fondatore della biopoetica in quanto ha saputo darle «un impianto solido e completo»: «Questo libro spiega che non c’è niente di più serio della letteratura. Ci spiega che questa è sì un sovrappiù, ma è un supplemento necessario ed è strettamente legato al nostro essere naturali». «Gli animali non umani, essendo molto più complessi di noi, non hanno bisogno di storie: bastano a sé stessi. È difficile concepire un gatto o un cane che si annoino!» ha affermato Ferraris, per poi ricordare che già Aristotele, con la sua definizione di uomo sociale, faceva riferimento a questa incompletezza: «L’uomo ha una incompletezza costitutiva. Diventa autonomo a 40 anni… se lo diventa e non lo è mai totalmente: ha bisogno di penna, telefonino… Dentro quella parte di mondo che manca all’umano c’è la narrazione». Inoltre, «la letteratura è qualcosa che ha luogo e si sviluppa nel momento in cui l’Uomo comincia a soddisfare i suoi bisogni, non dopo che lo ha fatto».
Parole che, almeno dal mio ignorante punto di vista, aprono prospettive nuove e attraenti. Mai, per esempio, avevo riflettuto sul fatto che, come evidenziato da Ferraris, anche la tecnica è narrativa: «La gestualità manifesta qualcosa di molto antico perché gli uomini primitivi narravano con i gesti. Il parlare è nato dopo, per ottimizzare i tempi: fare e, contemporaneamente, parlare» ha rimarcato il filosofo. A suo parere, Cometa, nel suo libro, illustra bene proprio «il momento in cui tecnica e parola, letterale e letterario si uniscono». Tornando successivamente sull’argomento ha poi spiegato che «siamo portati a pensare che dentro di noi ci siano dei significati che poi diamo al mondo. In realtà, succede il contrario: prima facciano dei gesti di cui ignoriamo il significato, poi glielo diamo. Così come accade ai bambini quando imparano le parole, le interazioni sociali, attraverso il procedimento di imitazione». «Talvolta il significato e la rappresentazione precedono il gesto, l’oggetto; altre volte vengono dopo, cioè l’azione precede il significato», ha aggiunto; in ogni caso, senza questa «elaborazione narrativa» non sarebbe possibile tramandare la tecnica.
Se, quindi, non possiamo fare a meno delle storie, è vero anche che, come ha affermato ancora Ferraris, «non puoi fare un mondo indipendente dalla narrazione come non puoi avere un linguaggio privo di metafore, immagini». «Già Aristotele diceva che le metafore sono piccoli racconti» ha ricordato e più tardi è tornato sulla questione affermando che «è un errore pensare che prima esista la vita e poi l’immaginazione». Concetto rafforzato da Cometa, il quale ha spiegato di aver affermato nel suo libro come «tesi finale che non possiamo fare a meno di storie né a livello antropologico né a livello psicologico».
Interessanti, inoltre, le sue considerazioni sul suo ambito di ricerca: «Chi si occupa di letteratura ha una grande responsabilità affinché questa non diventi un ghetto. “La letteratura non serve a niente”: è un’idea che si è rafforzata perché noi che la studiamo non ci siamo occupati degli altri ambiti, in particolare delle Scienze della natura». A suo parere, infatti, «la base di chi si occupa di letteratura deve essere piena anche di cose che riguardano la Natura». «Interrogarsi sulle funzioni della letteratura era un tabù», ma «bisogna far accettare ai letterati l’idea che la letteratura serve a qualcosa» ha affermato Cometa. A sostegno delle sue affermazioni ha, quindi, fatto presente che la rilettura di Darwin ha avvicinato le Scienze umane alle altre scienze e ha permesso di comprendere, per esempio, che «l’homo sapiens ha prevalso sugli altri perché è riuscito ad attrezzarsi narrativamente». Tant’è che, ha aggiunto, i biologi stanno studiando «quanto la proliferazione delle storie abbia contribuito all’evoluzione dell’Uomo». «I poeti veri non hanno mai rinunciato a discutere con il bios, con la vita: della tesi delle due culture [letteraria e scientifica, ndr], per fortuna, se ne sono fregati» ha affermato, rimarcando come «oggi gli autori che mettono mano a questi temi sono sempre di più». In ogni caso, è convinto che «noi studiosi della letteratura abbiamo parlato con un linguaggio biopoetico sempre». Dunque, con il suo libro mira a un nuovo approccio allo studio della letteratura: «L’idea è riaprire un portone con i rischi che ne verranno».
Certo è che il portone sulle possibili funzioni della letteratura lo ha spalancato scrivendo questo saggio che promuove l’idea che «la letteratura è uno straordinario antidoto all’ansia». Secondo Cometa, «l’essere umano è in costante stato di ansia perché è manchevole almeno dal punto di vista fisico: abbiamo dei deficit istintuali e per difenderci abbiamo bisogno di strumenti tecnici. Abbiamo raggiunto un livello di complessità tale, in particolare nell’immaginare scenari, da aver compreso la nostra mortalità e ciò ci rende ansiosi». Già, la morte: l’unica certezza che abbiamo, con cui, però, in tanti ci rapportiamo come struzzi, mettendo la testa sotto la sabbia. «La morte è una questione fondamentale che circola nei nostri racconti. L’homo sapiens ha bisogno di riempire l’incertezza che viene dal non sapere cosa accadrà domani, per cui ha inventato la letteratura per colmare questi vuoti. La mitologia nasce dalla paura, dal non sapersi spiegare determinati fenomeni. L’ansia è una delle tante varianti di quest’angoscia» ha spiegato Cometa. Tuttavia, rimarcando che «la bioetica è vecchia quanto tutto l’Occidente», ha ribadito di essere convinto che «la letteratura può essere una cura dell’ansia». A rafforzare questi concetti, anzi, direi quasi a mettere il dito nella piaga, è arrivato Ferraris: «Tutti sappiamo di dover morire, ma fino alla fine speriamo non sia così. Stessa cosa accade con le storie, quando rivediamo un film o vediamo una rappresentazione storica: sappiamo benissimo come va a finire, ma siamo comunque interessati alla narrazione e fino alla fine speriamo che le cose vadano diversamente». Touché!