Perché leggere “Just Kids” di Patti Smith
Impazzano al cinema già da qualche anno film e documentari sulle stelle più celebri del rock. Una tendenza inaugurata nel 2005 dal film Last Days su Kurt Cobain e proseguita nel 2007 con Io non sono qui di Todd Haynes, biografia originalissima su Bob Dylan. Di quest’anno sono invece i documentari When you’re strange su Jim Morrison, Control sui Joy Division e Twenty sui Pearl Jam. Tra poco toccherà anche a Patti Smith, che rischia addirittura di avere due film a lei dedicati: dopo il bellissimo documentario di Steven Sebring, Dream of Life, pare infatti che anche l’ultimo libro scritto dalla sacerdotessa del punk, Just Kids, diventerà presto un lungometraggio al quale essa stessa sta collaborando per la stesura della sceneggiatura, forte dei premi letterari e del successo conseguito come scrittrice (attualmente sta lavorando a un nuovo romanzo thriller).
Just Kids (Feltrinelli, 19,00 euro, 292 pagine) ha anche vinto il Premio Nazionale della Letteratura Americana 2011, nella sezione “no fiction”. È un libro interessante almeno per tre ragioni: primo, è un’autobiografia di una cantante ancora vivente. Secondo, è un’autobiografia sui generis, non focalizzata sulla sua esperienza di cantautrice, ma sugli anni della sua adolescenza vissuta negli alloggi temporanei delle forze armate a Germantown, Pennsylvania, e della sua gavetta di artista quasi da strada a New York City. Terzo, è una doppia biografia, perché protagonista e compagno di viaggio per tutto il romanzo è anche Robert Mapplethorpe, fotografo maledetto di ritratti su Andy Wharol, Amanda Lear e soggetti sadomaso, nonché compagno di stanza, amico e amante della Smith:
“Il ragazzo che avevo conosciuto era schivo, incapace di esprimersi. Adorava essere guidato, essere preso per mano e varcare la soglia di un altro mondo a cuore aperto. Era virile e protettivo, anche se femminile e remissivo. Meticoloso nel vestire e nel modo di comportarsi, era anche capace di un disordine terrificante all’interno delle sue opere”.
Il libro racconta soprattutto la loro relazione sentimentale, il tentativo di viverla nell’arte e per l’arte, la crescita individuale e artistica e la naturale evoluzione del loro rapporto. Un rapporto scandito da pochi soldi e la caparbia certezza che un giorno il loro talento sarebbe emerso in tutta la sua potenza, poiché i primordiali esperimenti di poesia simbolista della Smith o di arte povera di Mapplethorpe lasciavano pochi dubbi. Anche perché a gradire quei tentativi espressivi erano i personaggi geniali e tormentati del Chelsea Hotel di Manatthan: Allen Ginsberg, Sam Shepard, Janis Joplin e tanti altri.
Particolarmente toccante risulta, leggendo Just Kids, la scoperta, da parte di una Patti Smith ancora innamorata, dell’omosessualità di Mapplethorpe:
“Quando Robert rientrò da San Francisco lo trovai trionfante ma anche inquieto. Mi ero augurata che tornasse cambiato, e così fu, anche se non come avevo previsto. Aveva un’aria incandescente, somigliava più al vecchio se stesso, e si dimostrò più amorevole che mai nei miei confronti. Malgrado avesse sperimentato un risveglio sessuale, sperava ancora che potessimo trovare il modo di continuare la nostra relazione”.
Just Kids vibra di sentimenti contrastanti e della non facile ricerca di stessi, di una via all’arte e al proprio destino. La relazione tra la Smith e Mapplethorpe è avvincente, con i suoi numerosi allontanamenti e riconciliazioni, deliri e sorprese. Il punto debole del libro è forse l’incapacità, da parte della Smith, di far parlare Robert dandogli voce attraverso i virgolettati (sono così pochi, così brevi), ma questo non vuol dire che non l’abbia saputo far rivivere o non l’abbia ben raccontato.
Il punto più carico di pathos di Just Kids è senza dubbio il plumbeo e spirituale finale di una storia che fai il paio con i corpi materiali dei due protagonisti: le canzoni di Patti e le foto di Robert. Ovviamente non ve lo raccontiamo, anche se è noto, purtroppo, che Robert Mapplethorpe morì di complicazioni conseguenti all’Aids nel 1989.
Andrea Anastasi