Perché leggere “Accabadora” di Michela Murgia
Per imparare a non sentenziare …
Accabadora è un cerchio chiuso, una storia compiuta o meglio, come si dice in dialetto sardo, accabada, per l’appunto. E questo non perché il finale sia privo di spiragli per eventuali seguiti, ma perché in queste pagine si racconta tutto quello che c’era da raccontare e accade tutto ciò che doveva assolutamente accadere. Di un libro così non può esserci molto da dire e parlandone troppo si rischia di andare fuori strada o, comunque, di tradirne l’essenza.
L’autrice, Michela Murgia, non ha neanche quarant’anni, eppure la sua scrittura ha la solida e saggia severità degli anziani di un tempo. Privo di inutili ornamenti e tecnicismi fini a se stessi, il suo stile è arricchito proprio da questa concreta semplicità: con poche, efficaci parole viene detto tutto, anche ciò che non è fatto per essere descritto. Il linguaggio è schietto e, in perfetta sintonia con il contenuto, in alcuni passaggi diventa piuttosto aspro. Le parole possono suonare fredde, distaccate, ma ad uno sguardo attento non sfugge il loro carico di umanità e la presenza di un tocco, tanto discreto quanto prezioso, di sensibilità femminile.
È in questo modo che ci viene raccontata la storia di Bonaria Urrai e di Maria Listru, da lei scelta come figlia. Una fill’e anima – i sardi lo sanno – è qualcosa di diverso da una figlia adottiva e l’autrice non affida la spiegazione di questo singolare “istituto” a sterili ed approssimative definizioni, ma alla descrizione del complesso rapporto tra Maria e le sue due madri.
Il romanzo, però, va ben oltre questo: come lo scudo di Achille, racchiude l’intero ciclo della vita di un essere umano, dalla nascita alla morte, passando per l’innamoramento, la maternità/paternità, le gioie e i dolori. E queste fasi vengono descritte attraverso le vicende di più personaggi.
“Accabadora” è colei che finisce ossia colei che pone fine ad un’esistenza divenuta troppo dolorosa: com’è facile intuire, dunque, l’elemento cardine è costituito dal rapporto tra l’uomo e Dio nella gestione del passaggio dalla vita alla morte. Un tema tanto attuale quanto delicato, che vien qui affrontato con estrema maturità e consapevolezza, lasciando comunque al lettore la libertà di decidere da che parte stare. Perché se c’è una cosa che di sicuro questo libro insegna (senza, peraltro, pretendere di farlo) è che non bisogna esprimere giudizi affrettati, non bisogna costruirsi comode quanto fragili certezze:
«Ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno […] Non era questione di giusto o sbagliato, perché nel mondo in cui era cresciuta quelle categorie non trovavano posto.»
Marcella Onnis