Perché leggere “Emmaus” di Alessandro Baricco
Alessandro Baricco è forse lo scrittore italiano vivente più antipatico. Non si tratta di una mia convinzione personale, ma di un dato di fatto, visto che riesce ad attirarsi le antipatie di tutte le categorie: critici, colleghi, lettori e persino librai. Quando pubblicò Questa storia, ad esempio, andai in libreria per acquistarlo e, vedendo che lo stesso romanzo era presente con diverse copertine (si trattava della prima versione, edita da Fandango), mi venne spontaneo domandare alla commessa se vi fossero differenze tra l’una e l’altra copia. Con il tono di chi disapprova, mi rispose: “No, è un vezzo snob dell’autore”. Ora, se anche una persona di indubbia professionalità si sbilancia a fare una simile considerazione, qualcosa vorrà pur dire …
In effetti, Baricco non è il massimo della simpatia: non è umile né si preoccupa di fingersi tale, è narcisista, non scrive per farsi capire e via dicendo. Però, posto che è inevitabile che i giudizi su un’opera d’arte vengano influenzati da eventuali opinioni negative sull’autore, è giusto farsi completamente accecare da questa disistima, al punto da dare valutazioni che negano l’evidenza dei fatti? Certo, quando a suo tempo, lo scrittore torinese si lamentò per la scarsa attenzione riservatagli dai critici letterari, si tirò un po’ la zappa sui piedi, ma vendicarsi sparando a zero su di lui non credo sia molto professionale. Quando uscì City, qualcuno lo definì un romanzo commerciale. Dopo averlo letto conclusi che delle due l’una: o quella persona non aveva letto il libro o io non sapevo (e non lo so tutt’ora, perché quel giudizio è stato confermato per i romanzi seguenti) cosa sia “commerciale” ovvero cosa sia di facile presa sul pubblico e quindi per questo venda. Per me commerciale è qualcosa di sostanzialmente semplice, di facile accesso ossia, tradotto in termini letterari, una storia abbastanza lineare, con un inizio e una fine riconoscibili, narrata con parole chiare e senza virtuosismi fini a se stessi. Insomma, l’esatto opposto di City, che racconta una storia senza capo né coda, con lo stile raffinato e sì, abbastanza manierista di chi sa scrivere e lo vuol far vedere. Di questo stile, Massimiliano Parente scrive: «il baricchismo appartiene al genere Narrativa Per Adulti Scritta Come Se Fossero Bambini». Ma chi di voi ha mai trovato in testi come Le avventure di Alice nel Paese delle meraviglie di Lewis Carroll, Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry o Lo Hobbit di J.R.R. Tolkien, passaggi del tipo «Dell’aporia per eccellenza abbiamo fatto un feticcio – siamo gli unici che adorano un dio morto»? Questo, cari lettori, sarebbe il linguaggio per bambini utilizzato nel suo ultimo romanzo, Emmaus.
Ma il mio giudizio lascia il tempo che trova, visto che persone ben più autorevoli di me ritengono che questo scrittore abbia immeritevolmente successo. Goffredo Fofi – tra gli altri – nota in lui una “irresistibile propensione al kitsch” e considera Emmaus, privo di “dignità morale e anche dignità letteraria”. Per cui ciò che vi dico oggi servirà solo a insegnarvi che non bisogna fidarsi troppo di ciò che vi dicono su libri e scrittori, ma che è sempre meglio toccare con mano e farsi un’idea propria. Il punto di vista, infatti, fa la differenza e ci porta a dare interpretazioni diverse dello stesso fenomeno. Per esempio, ancora riguardo a Emmaus, sempre Massimiliano Parente dice: «La novità rispetto agli altri romanzi che trovate in libreria è che i risvolti di copertina sono completamente bianchi, forse non sapevano cosa scrivere». Mentre Giulia Mozzato un’idea in proposito ce l’ha: «[…] un racconto non classificabile. Forse anche questo è il motivo per cui l’autore ha chiesto che sull’oggetto libro non apparissero né la quarta di copertina né spiegazioni esterne del testo: impossibile e fuorviante darne una lettura sintetica e comune». Va da sé che io ritenga plausibile la ricostruzione della Mozzato, ma vi confesserò una cosa: pur avendo l’abitudine di cominciare la lettura di un libro dai risvolti di copertina, non ho fatto caso a quest’assenza; sono andata subito al sodo.
Restando sintonizzati sull’ultima fatica dell’antipatico per eccellenza, vorrei spendere pure alcune parole sulla punteggiatura. Come avrete notato dal passaggio che ho riportato sopra, una caratteristica di questo romanzo è l’uso particolare del trattino – o lineetta che dir si voglia – con la funzione non di aprire e chiudere incisi ma di sostituire la virgola (nella maggior parte dei casi) o anche i due punti. Sicuramente ha ragione chi dice che si tratta di una scelta fatta per stupire e che alla lunga annoia o – a parer mio – più che altro disturba. Ma mi viene spontaneo chiedermi: se questa trovata fosse venuta in mente ad un altro scrittore, magari uno di quelli simpatici e modesti (o finti tali), quanti l’avrebbero comunque criticata e quanti, invece, avrebbero parlato di geniale innovazione?
Peraltro, mi stupisco che chi del fargli le pulci sembra aver fatto una ragione di vita non abbia avuto nulla da ridire sull’orrore grammaticale a pagina 122: quel “gli passiamo davanti” anziché – in quanto riferito a più persone – “passiamo loro davanti”. Un po’ grave per un autore di successo e un grosso editore (Feltrinelli), il cui organico sicuramente prevederà dei revisori di bozze …
Venendo al contenuto, la trama riguarda le vicende di quattro amici tardo-adolescenti, cresciuti in ambiente cattolico-borghese nella Torino degli anni Settanta. In realtà, come è consuetudine nella narrativa “barricchiana”, tempo e luogo non sono esplicitati: ognuno ci arriva per strade proprie; io ci sono arrivata grazie all’intervista che Baricco rilasciò a Fabio Fazio durante una puntata di Che tempo che fa. Quelle descritte sono vicende che il protagonista, ormai cresciuto, racconta con la consapevolezza dell’età adulta, pur mantenendo l’emotività del ragazzo che era allora.
Ma l’elemento-chiave non è tanto lo spaccato di una gioventù più o meno bruciata, quanto piuttosto la condizione degli esseri umani che camminano per il mondo sostanzialmente ciechi davanti alle verità. Una condizione tipica di un certo modo di essere cattolici. Baricco ci va giù pesante su questo punto e poco importa se creda veramente in ciò che ha scritto: ciò che conta è che obbliga ogni cattolico che si imbatta in certe affermazioni a porre in dubbio le proprie convinzioni. Per esempio, non è vero che nel cattolicesimo non c’è attenzione per la bellezza (pensiamo al Cantico dei cantici), però è indubbio che non è contemplata – o forse sarebbe più opportuno dire accettata – la bellezza fine a se stessa. E ancora, come restare indifferenti davanti a frasi come questa: «È un protocollo del martirio che, con un termine a ben pensarci sublime, noi chiamiamo Passione – una parola che per tutto il resto del mondo significa desiderio». Fa paura pensare che il credo cattolico porti in sé qualcosa di assurdo; fa vacillare l’idea che un giorno ci si possa accorgere d’improvviso – e troppo tardi – che quella fede che consideravamo più o meno salda non c’è più perché in modo lento, impercettibile, ma inesorabile è andata svanendo.
Cecità, dunque. Questa la motivazione del titolo, Emmaus, che richiama il noto episodio del Vangelo in cui due amici incontrano Gesù risorto, camminano per diverso tempo al suo fianco, chiacchierano con lui ma lo riconoscono solo quando, durante la cena, Egli compie il gesto di spezzare il pane. Di questo episodio, come di quello che ha per protagonista “Tommaso detto Dìdimo”, ho sempre dato una lettura dal risvolto positivo: c’è sì l’incapacità di vedere, riconoscere, credere, ma anche la possibilità di redenzione nel momento in cui il velo cade dagli occhi. Invece, qui – e secondo una lettura piuttosto diffusa – il risvolto è negativo perché la scoperta tardiva fa sì che, per dirla con Baricco, delle cose si manca “sempre il loro cuore”. Non solo: in questa visione della vicenda, lo stesso Gesù sembra inizialmente non essere consapevole della propria identità, sembra dubitare di sé. E se Dio in primis non riconosce se stesso …
Ma, come già accennato, Emmaus e il cattolicesimo sono solo metafore di quella caratteristica che appartiene tendenzialmente a tutto il genere umano: quell’incapacità di vedere chiaro nelle cose nel momento in cui ciò è più necessario. Tuttavia, come qualcuno ha giustamente rilevato, questo romanzo non contiene giudizi e condanne: è un mea culpa a vocazione collettiva che peraltro, vista l’ineluttabilità di questa “colpa”, contiene anche un’implicita autoassoluzione.
C’è chi ritiene che questo romanzo difetti perché pone degli interrogativi senza fornire risposte: per quel che mi riguarda, ciò che leggo può ben fornirmi solo i primi, visto che le seconde preferisco trovarle da me. E voi?
Marcella Onnis
Per me, bella recensione chiara e senza civetterie. Condivido che un autore ci insinui interrogativi senza dare risposte; che ognuno trovi le proprie. Anche se somiglianti, le risposte individuali ci dovrebbero difendere “dall’ammasso” delle coscienze. SALUTI
Perfettamente d’accordo! Grazie, Sandra,per avermi letta e per averci lasciato questa sua riflessione.
Scopo del tutto è riflettere su quel periodo “assurdo”della nostra vita detto “adolescenza”. Da noi ormai fortunosamente superato, ma nel quale i nostri figli o nipoti stanno annaspando. Periodo convulso, contraddittorio,religioso, come lo è il libro (originale il modo “gergale”di narrare tipico dei giovani e incomprensibile a noi adulti…). Più che capirlo, questo periodo,cercare di gestirlo ora che siamo adulti…Buono.