Perché leggere “Giulietta prega senza nome” di Elena Torresani
Come ho detto più di una volta, sono convinta che i libri ci chiamino. E quando al loro richiamo si aggiunge quello dell’anima, tra lettore e libro (solitamente anche autore) non può che crearsi un legame viscerale.
Per me è stato così con due libri di Elena Torresani … e con l’autrice stessa. Il primo libro è L’inferno di Eros, tra le più apprezzabili e sincere espressioni della sessualità femminile (altro che 50 sfumature e dintorni, dozzinali ritratti di un universo molto più complesso e affascinante). Credo che noi donne dovremmo essere grate a questa giovane scrittrice per aver dato voce a quel mondo interiore che, chi più chi meno, possediamo tutte ma che in tante fatichiamo a far accettare, a volte pure a noi stesse. Questa piccola preziosa pubblicazione è ormai praticamente introvabile, per cui colgo l’occasione per fare un appello agli editori seri che puntano sulla qualità: uno di voi si faccia avanti e lo rimetta in commercio!
Il secondo libro della Torresani in cui per tanti versi mi sono ritrovata così tanto da provare, delle volte, un certo sgomento è Giulietta prega senza nome (edito da Voltalacarta e fortunatamente reperibile). In comune con il precedente ha la “firma” dell’autrice: quella capacità, rara anche tra le donne, di denudarne la mente, spezzando i vincoli imposti dalle convenzioni sociali, e quel linguaggio schietto che, in armonia con l’altra caratteristica, esprime la sensibilità in modo anticonvenzionale. Un linguaggio ironico e poco carezzevole, per questo mai stucchevole e sempre veritiero.
Come forse avrete intuito, non è un caso che ve ne parli proprio oggi che si celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. La lotta contro questo orrore passa, infatti, necessariamente anche per l’emancipazione femminile, che non significa pensare, parlare e agire come gli uomini, ma fare ciò che anche la Torresani ci suggerisce: dare spazio nei pensieri, nelle parole e nelle azioni alla propria autentica femminilità, liberandola dagli stereotipi in cui tutte, da secoli, veniamo ingabbiate, a volte per nostra stessa mano. Il che comporta, ad esempio, accettare e far accettare l’idea che non tutte le donne nascono per essere madri e/o mogli: «[…] tutto d’un tratto la vita mi stava dicendo che l’affermazione e il valore della persona non passano per forza attraverso l’accettazione da parte di un uomo a condividere letto e vita, con un ginocchio genuflesso sull’altare e le bollette da dividere.»
Ma per vivere la propria vita in un modo che ci assomigli profondamente – come direbbe l’autrice – occorre imparare a conoscersi, che è molto più facile a dirsi che a farsi, Tante volte, infatti, per paura, per comodo o per semplicità, preferiamo autoconvincerci di cose che non sono, infilarci panni che non sono stati tagliati per noi, dimenticando che «[…] raccontarsi bugie è una delle armi più improprie che possiamo usare contro noi stessi.» Capire chi siamo e accettarci per come siamo è un obiettivo che, peraltro, vale anche per gli uomini, perché anche loro, talvolta o forse spesso, hanno bisogno di «[…] imparare a distinguere i bisogni sociali da quelli personali.» Dobbiamo tutti imparare a rifiutare i percorsi di vita obbligati, dobbiamo fissare per le nostre esistenze tappe che siano nostre, definite secondo i nostri tempi ma anche secondo le nostre reali inclinazioni naturali. Ce lo insegna Giulietta, la protagonista di questa intensa e toccante storia: «Avevo frainteso quello che ero con quello che mi sarebbe piaciuto essere, imparando a mie spese la differenza che esiste tra queste due considerazioni e capendo che non necessariamente una è migliore dell’altra.»
“Del libero arbitrio”: così potrebbe intitolarsi questo libro, se di saggio si trattasse e non di romanzo. Perché ci insegna a cercare una maniera personale di affrontare ogni aspetto della vita, bello o brutto che sia. Anche il dolore e la malattia, dunque, a cui in queste pagine viene dedicato tanto spazio con parole che commuovono («La consapevolezza della morte è una cosa, il dolore e il degrado della malattia è un’altra. […] Il dolore complica tutto, perché il tempo che ti resta non è più tempo, non è più vita.») ma anche aiutano. Leggendole, mi sono tornati alla mente passaggi di Parlare da soli di Andrés Neuman, con cui ha molti punti di contatto: oltre ai temi, di certo anche la capacità di mettere a nudo l’animo umano, soprattutto nelle sue debolezze.
Difficile affrontare il dolore, la malattia, la morte. Difficile anche solo prendere in considerazione l’eventualità che tocchino noi o i nostri cari. E forse ha ragione Giulietta quando dice: «Credo che la gente in passato morisse molto più serena, perché la vita non era così carica di aspettative, ambizioni, redenzioni e speranze.» E quando si chiede, anzi ci chiede: «Che l’eccesso di progettualità fosse la vera malattia degli uomini del ventesimo secolo? Che tutto il tempo passato ad aspettare un compimento, un arrivo, un ritorno, una realizzazione, fosse tutto tempo sprecato sottratto al succo vero dell’esistenza?»
Ci piaccia o no, della vita dobbiamo prendere anche il lato oscuro: l’unica opzione che abbiamo riguarda il modo di affrontarlo. E in questo, come accennavo prima, dobbiamo – o, meglio, dovremmo – essere liberi di scegliere: «Non è esclusivamente lo spirito di sopravvivenza di ognuno di noi che spinge ad affrontare calvari inutili: in alcuni casi è la falsa speranza che viene coltivata o lasciata coltivare. Penso che ognuno di noi sia libero di credere nei miracoli, della scienza o di Dio che siano: è una delle scelte più comuni e più semplici. Ma penso anche che ognuno di noi sia altrettanto libero di non crederci a questi benedetti miracoli […]». Perché «[…] non esiste nessun dio che abbia un solo buon motivo per infliggere un dolore simile per chiedere di sopportarlo, e non esiste nessun uomo che si possa arrogare la pretesa di decidere della vita e della morte di qualcun altro.»
Abbiamo poco tempo a disposizione e non sappiamo nemmeno quanto ce ne resta. Siamo tutti precari su questa Terra, come mi ha ricordato mia madre in questi giorni, commentando il dramma causato in Sardegna dal ciclone. Perciò l’unico modo per vivere bene questa precarietà, per non sprecare niente di ciò di cui c’è dato di godere, è imparare a concentrarci sulle cose che contano veramente, come ci insegna anche . E anche questo è facilissimo da dire, ma altrettanto facile da non fare: «Non ero focalizzata su niente che non fosse l’istante, e mi perdevo la bellezza di tutto ciò che bussava ai miei confini..»; «È così che ci si perde. Io cercavo cose in cui trovarmi o identificarmi, e nel frattempo non mi accorgevo di tutta la bellezza che mi scappava dalle mani.» Dobbiamo capire che «Non si gioca con la felicità: è una signora piuttosto fragile e capricciosa. Esige delicatezza.» e riflettere su ciò che ci rimprovera Giulietta: «Teoricamente dovrebbe essere un sano dubbio infilato in ogni cosa che facciamo, quello di pensare che potrebbe essere l’ultima volta. Di fatto, però, nessuno ci pensa mai […]».
Questi i suoi ottimi consigli. A noi il compito di metterli in pratica plasmandoli sulla propria identità, perché solo così potremo realizzare la nostra personale idea di felicità. È questo, del resto, che ci suggerisce una delle frasi più significative di questo straordinario romanzo: «Non credete a tutto quello che vi dicono: spesso ciò che conta di più ha un nome che non conoscete ancora.»
Dunque, sbrighiamoci a cercarlo il nome che fa per me noi «Perché la differenza in punto di morte non è data da quanto siamo stati buoni, irreprensibili, fedeli, produttivi, puntuali, o quanto caparbiamente abbiamo sopportato un dolore da cane scuoiato: la differenza sta solo nelle cose che abbiamo fatto e in quelle che non abbiamo fatto. Ancor di più in quelle che volevamo fare, ma che non siamo riusciti a fare.
Domandatevi cosa vi rimproverereste di non aver fatto se doveste morire tra un mese: alzatevi e fatelo. […]È come abbiamo vissuto il tempo a nostra disposizione che fa la differenza tra il morire bene o il morire male, e il numero di sogni che abbiamo lasciato marcire nel cassetto restando fermi a fissare il soffitto, impegnati a pagar bollette e a ricordare il motivo per cui abbiamo litigato con qualcuno.
Le piaghe da decubito che fanno più male non sono quelle della carne ma quelle di cui abbiamo lasciato ammalare i nostri sogni.»